martedì 21 febbraio 2012

Il caso Alcoa: prezzi dell'energia come sussidio industriale D108/112

Con Stefano Mottarelli

Prima delle liberalizzazioni, i prezzi del gas e dell'elettricità erano anche una leva di politica industriale, e venivano controllati direttamente da agenzie governative. Poi sono arrivati i mercati. Ma le bollette attuali hanno ancora componenti che le differenziano con finalità di aiuto a certi comparti o tipi di clienti industriali. E siccome quello delle bollette è un sistema non più interconnesso con la fiscalità generale, chi ottiene sconti rispetto ai costi complessivi della fornitura li ottiene a spese degli altri clienti di energia, che finiscono quindi per contribuire di più agli stessi costi.

Si ripete di continuo che in Italia l'elettricità costa di più che nel resto d'Europa. È mediamente vero, ma lo è in modo molto diverso tra categorie diverse di clienti, e talvolta non lo è affatto. In Italia, ma non solo, alcune categorie di grandi clienti industriali, generalmente quelli per i quali l'energia è una voce di costo particolarmente importante, hanno tutt'ora accesso a formule di contribuzione agli oneri del sistema elettrico molto vantaggiose, tanto da rendere il loro prezzo estremamente basso rispetto a quello offerto ad altri clienti. La motivazione politica di ciò è la stessa di un tempo: politica industriale: intesa come aiuti alle imprese. Che non passano per le tasse, ma per le bollette.

La stessa Commissione Europea, nel valutare l'assimilabilità degli sconti di categoria previsti dallo Stato ad aiuti illeciti, osserva che è normale che sul mercato una categoria di grandi consumatori abbia forte potere negoziale, e che l'offerta dei produttori tenti di adeguarsi trovando il modo di discriminare il prezzo a favore di questa categoria per non perderla come cliente pur senza dover concedere agli altri clienti le stesse condizioni. È altrettanto chiaro, però, che se questa discriminazione di prezzo è decisa per decreto, e non dal mercato, il rischio di sussidi incrociati fuori controllo è più alto.


La storia

Il gruppo Alcoa (Aluminum Company of America, 59.000 dipendenti nel mondo, 21 miliardi di dollari di fatturato nel 2010) nel 1996 acquista la società italiana a partecipazione statale Alumix (del gruppo EFIM, una delle holding delle partecipazioni statali di allora). E si aggiudica due stabilimenti, tra cui quello di Portovesme in Sardegna. Uno stabilimento capace di consumare da solo circa un quinto del totale dell'elettricità sarda e che oggi impiega 500 dipendenti.
Un decreto ministeriale per rendere possibile l'acquisizione del '96 stabilisce il diritto dei due stabilimenti a ricevere dall'Enel una tariffa agevolata per le forniture di energia elettrica. E il prezzo per Portovesme viene fissato molto più basso di quello praticato alla generalità degli altri impianti industriali.

Dal 1999, con l'inizio della liberalizzazione del mercato elettrico, la tariffa sottocosto di Alcoa entra tra gli oneri generali del sistema. Viene cioè introdotto un sovrapprezzo in tutte le bollette per compensare lo sconto che prima l'Enel direttamente, poi la Cassa Conaguaglio, devono praticare ad Alcoa.
Nel 2004 c'è un cambiamento importante: con un DPCM del 6 febbraio la tariffa (in scadenza a fine 2005 e che dal 2000 è stata nel frattempo un po' aumentata fino alla soglia dell'equivalente di 40 lire al kWh rispetto alle originali 36 circa) è prorogata fino a giugno 2007, ma anche estesa a tutte le forniture di energia elettrica destinate alla produzione di alluminio, piombo, argento e zinco (ma solo per impianti già esistenti) situati in territori insulari caratterizzati da collegamenti assenti o insufficienti alle reti nazionali. In altri termini: il Governo rende meno specifico il trattamento, pur mantenendo il vantaggio mirato a grandi produzioni metallurgiche energivore in aree insulari.

Nel 2005, una delibera dell'Autorità per l'Energia introduce un legame tra l'incremento annuo della tariffa (che chiamiamo ancora per semplicità Alcoa anche se è estesa a un piccolo novero di beneficiari) e quella dei prezzi medi elettrici all'ingrosso, pur con un tetto al 4%. Sembra l'avvisaglia della fine del trattamento estraneo a un mercato nel frattempo più che avviato. Invece lo stesso anno una legge proroga la tariffa Alcoa fino a fine 2010, e prevedibilmente la Commissione UE (2006/C 214/03) avvia un'indagine per definire se si tratta di aiuto di Stato.


È aiuto di Stato?   

Il dubbio alla Commissione viene visto che la tariffa:
·       - costituisce un vantaggio economico
·       - minaccia di alterare la concorrenza 
·       - incide sugli scambi intracomunitari dei prodotti dalle aziende beneficiarie

e soprattutto secondo la Commissione si può parlare di aiuto di Stato perché la decisione di concedere questo vantaggio è delle autorità e prevede un trasferimento di risorse pubbliche sotto forma di un prelievo parafiscale.

Ecco un punto centrale. Che ha un'applicabilità che prescinde dal caso Alcoa, e apre un capitolo insidioso. Un sistema di bollette inevitabilmente ha componenti regolate con cui alcuni costi vengono suddivisi tra tipi di clienti. È così in qualunque mercato energetico per quanto liberalizzato, perché alcuni costi afferiscono a servizi che restano in monopolio legale, e le bollette sono quindi anche trasferimenti economici parafiscali.

Nel frattempo la Commissione europea assume un approccio negoziale e ammette la tariffa Alcoa transitoriamente, purché in Italia si attui un programma di intensificazione della concorrenza elettrica, attraverso l'obbligo di alcuni operatori ancora dominanti in particolare nelle isole di cedere ad altri un po' della capacità delle loro centrali elettriche.
Ma alla Commissione non basta. E Bruxelles dichiara la tariffa di favore “aiuto di Stato”, e con una Decisione della Commissione UE del 2009 obbliga lo Stato italiano a chiedere indietro ad Alcoa gli sconti ottenuti successivamente al tempo limite che la stessa Commissione aveva imposto in precedenza.


Quanti soldi? Per fare cosa?

Si tratta di circa 300 milioni in un solo anno come calcolati dal Governo italiano, mentre per tutti i quindici anni di sussidi Marco Alfieri della Stampa stima il vantaggio in quasi 2 miliardi.

Nell’aprile 2010 Alcoa ricorre contro la decisione di Bruxelles senza successo finale, e nel marzo 2011 la Commissione deferisce l’Italia alla Corte di Giustizia per il mancato recupero degli aiuti. Alcoa nel frattempo minaccia, come oggi, la chiusura degli impianti e ottiene la legge cosiddetta "Salva Alcoa", con effetti fino al 31 dicembre 2012 e vantaggi che possono arrivare ai 40 €/Mwh, circa la metà di quanto l'elettricità costa oggi all'ingrosso al netto di tutti gli oneri. La scappatoia è sempre la stessa: fare una norma che solo formalmente non è ad hoc, per prorogare gli aiuti.
Quando arriva il Salva Alcoa, un altro stabilimento sardo, Eurallumina, ha chiuso, e l'utilizzo del carbone locale per produzione elettrica anch'esso si trascina tra sussidi e progetti di rilancio. 

L'industrializzazione ex di Stato di Carbonia e dell'Iglesiente vede i nuovi investitori tirarsi indietro uno dopo l'altro, come racconta in un bel reportage Marco Alfieri su La Stampa. Le produzioni di base fatte in Sardegna, così come nel continente, sono sempre meno competitive e la disoccupazione degli under 30 nell'area è arrivata ai giorni nostri attorno al 50%.
Una situazione drammatica, a fronte della quale però la proroga dei sussidi fornisce soluzioni non solo inique e distorsive, ma necessariamente temporanee, e quindi induce i beneficiari a tirare avanti e approfittarne senza una politica di investimenti. Sussidi insomma che rimandano, ma nello stesso tempo rendono più certo e repentino, l'esito finale di deindustrializzazione.

La politica sembra non riesca a trovare il coraggio e la visione per cambiare pagina, e affrontare il problema dello sviluppo di questa e altre aree depresse con una qualche visione strategica. Davvero vogliamo fare produzioni di base energivore pagate dalla collettività in una perla del Mediterraneo? Davvero non ci sono altre strade? Fornire magari finanziamenti agevolati a nuovi imprenditori anziché sussidiare un business in crisi e a forte impatto ambientale, non sarebbe più ragionevole?

Con due miliardi di Euro (pari a 1 milione a testa a 2000 disoccupati), è probabile che in questi quindici anni politiche di welfare alla persona e investimenti in formazione, infrastrutture (quelle giuste, anzitutto immateriali) avrebbero fatto meglio rispetto al tunnel degli aiuti industriali senza una prospettiva, e che offendono la concorrenza.


La restituzione

Finora a Derrick non risulta che lo Stato abbia recuperato i trasferimenti ad Alcoa e agli altri beneficiari. E i recenti avvenimenti politici, o meglio parlamentari, italiani, vanno addirittura nella direzione opposta.
Il 1 marzo Antonio Di Pietro dichiara che per evitare la chiusura dello stabilimento di Portovesme "va individuata una soluzione industriale, attraverso accordi bilaterali con produttori di energia, al fine di rendere competitivo lo stabilimento”.

Di Pietro non ascolta Derrick e forse non sa che quelli che lui chiama "accordi bilaterali", nell'era di mercato dell'energia, sono stati non sacrifici dell'Enel o di qualche altro fornitore, ma oneri in bolletta a carico di tutti i consumatori, industriali e non.
Pochi giorni dopo, il 13 marzo, il Governo è battuto alla Camera con un ordine del giorno votato tra gli altri da PDL e PD, ma non dai deputati Radicali. L'ordine del giorno invita il Governo a “predisporre di concerto con la regione Sardegna un apposito piano integrato di rilancio del Polo energetico ed industriale del Sulcis”.  E chiede nello specifico di prorogare la legge di conversione del cosiddetto decreto "Salva Alcoa", di cui abbiamo parlato nelle puntate passate, e che ha costituito l'ultima tranche legislativa di questi aiuti.

Elisabetta Zamparutti, deputata radicale in Commissione ambiente, motivando il voto contrario della delegazione Radicale ha detto tra l'altro che "è da quando è stato privatizzato che lo stabilimento di Portovesme in Sardegna usufruisce di sussidi nelle bollette elettriche, sussidi pagati da tutti i consumatori di energia elettrica.".


La scorciatoia delle bollette

Se il Parlamento votasse una legge di sussidi industriali con soldi pubblici, dovrebbe per Costituzione indicare la provenienza dei fondi necessari. Ma siccome qui i sussidi sono a carico delle bollette, cioè fuori dal sistema della fiscalità, si genera una particolare distorsione e deresponsabilizzazione dei decisori politici. Qui il legislatore prende decisioni che riguardano anche i soldi pubblici, com'è nel suo ruolo, ma le prende senza doversi in nessun modo preoccupare, almeno dal punto di vista dell'accettabilità costituzionale, della questione di da dove arrivano le risorse e di qual è l'impatto non solo sulla competitività di chi i soldi li prende, ma anche di chi ce li mette.
E così: gli aiuti per gli stabilimenti interessati dall'ordine del giorno della Camera sono menzionati nell'ordine del giorno. Ma gli aggravi ai consumatori, anche industriali, che quei sussidi li pagano in bolletta e non nelle tasse, dove sono? Chi ne sostiene il costo politico?


Verso la chiusura dello stabilimento di Portovesme?

Sindacati e lavoratori hanno manifestato contro la paventata messa in mobilità degli addetti allo stabilimento, anche con scontri con le forze di polizia davanti al Ministero dello Sviluppo Economico, e negli ultimi giorni di marzo [2012] è stato raggiunto un accordo di cui Derrick al momento non dispone ma che comprenderebbe il ritiro della procedura di mobilità dei lavoratori e il mantenimento della produzione fino al 31 ottobre 2012, in caso di assenza di manifestazioni di interesse di altri investitori, fino a fine 2012 in caso di manifestazioni di interesse, con cassa integrazione dal 1 gennaio 2013.
Inoltre, come 15 anni fa quando lo stabilimento allora pubblico fu venduto ad Alcoa, ma con la differenza che oggi sarebbe contro una sentenza dell'UE, il Governo si sarebbe impegnato a provare a rendere disponibili ancora per un po' i sussidi sul prezzo elettrico, per poi puntare su soluzioni di più lungo periodo. Vediamo quali, secondo le notizie circolate sui giornali.

La prima soluzione strutturale per abbassare il prezzo dell'energia di Alcoa sarebbe un accesso privilegiato alla capacità di interconnessione elettrica con l'estero, per beneficiare in modo esclusivo del minor prezzo oltre frontiera. Aimé: è una misura del tutto assimilabile a un aiuto, perché la giurisdizione dell'energia prevede che alla capacità dei cavidotti internazionali si acceda di norma in modo competitivo tra tutti gli interessati.

La seconda soluzione prevederebbe accordi diretti con Enel. Il che non si capisce cosa voglia dire. Enel, società per azioni controllata ma non interamente posseduta dal Tesoro, farebbe un regalo ad Alcoa rispetto al prezzo di mercato? Se è così si comprende perché il titolo sta cedendo in borsa. Sarebbe a modo suo geniale: far pagare agli azionisti della sola Enel, di cui il Governo controlla il CDA, e non solo ai consumatori di energia, il costo degli aiuti, alla faccia delle distorsioni del mercato.

La terza soluzione sarebbe autoproduzione di elettricità da parte di Alcoa. Che di per sé nessuno ha mai vietato ad Alcoa né ad altri. Quel che s'intende però è probabilmente la cessione pilotata ad Alcoa di una centrale altrui. Si parla di una sezione dell'impianto a carbone di Enel Sulcis, che però secondo alcuni giornali l'azienda di Conti in passato già non avrebbe voluto vendere ad Alcoa.

Le centrali a carbone in effetti sono un po' più economiche di altre (soprattutto perché, per motivi che non possiamo ricordare ora, se ne pagano ancora solo scarsamente i costi ambientali). Ora, in caso di cessione coatta di capacità produttiva a carbone da Enel a Alcoa si riproporrebbe come sopra il dubbio se Enel sia una S.p.A. sul mercato, o un'agenzia del Governo partecipata dal mercato.
La cessione coatta di capacità produttiva peraltro non è in sé una bestemmia. Già Bersani nel '99 impose la vendita di centrali dell'allora monopolista per rendere contendibile il mercato elettrico. Lì però si parlava, appunto, di un monopolista, e le centrali vennero messe all'asta, non attribuite ex lege a qualcuno.

Riflessione della settimana di Derrick: Chissà se a un certo punto si prenderà piena coscienza che nell'era del mercato il Governo non può più decidere, se non con interventi infrastrutturali e di contesto regolatorio, chi investe dove. L'alternativa c'è naturalmente: fare marcia indietro dall'era del mercato.

(Grazie a Stefano Mottarelli)

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