martedì 13 novembre 2012

La speculazione - Parte 3 - D138

Questa è la terza puntata (qui la seconda) di Derrick speciale economia dedicata alla cosiddetta speculazione. Che per chi ne usa le accezioni negative vuol dire cupidigia applicata ai soldi e ai mercati. Non ho mai sentito nessuno prendersela con la speculazione di uno che compra un bene che gli serve cercando di pagarlo il meno possibile. Ma se uno compra qualcosa per rivenderlo e farci una differenza, beh allora rischia la bolla di speculatore. Come mai? E chi lo sa.

L'altra volta accennavo ai derivati, simbolo forse per antonomasia della speculazione e della finanza deteriore. Guido Rossi ha scritto sul Sole 24 Ore che i derivati son diventati da strumenti di copertura del rischio a scommesse da casinò.
Cosa sono i derivati? Sono contratti finanziari il cui valore dipende da qualcos'altro che è detto sottostante, e che di solito è il prezzo di un bene scambiato in mercati organizzati, oppure un indice finanziario pubblicato.

Facciamo un esempio: il contratto con cui una parte s'impegna a cedere all'altra i futuri aumenti di prezzo del sottostante, e a vedersi invece riconosciute le sue eventuali riduzioni, si chiama future, ed è il più semplice derivato. Un future sul cherosene, per esempio, può essere comprato da una compagnia aerea per proteggersi dal rischio che il prezzo del carburante aumenti (perché in tal caso spende sì di più per fare il pieno, ma guadagna dal future), ma implica la perdita del vantaggio se il prezzo scende. La controparte di questo future può essere un'azienda che invece vuole proteggersi dalle riduzioni di prezzo del cherosene, per esempio un raffinatore. Oppure può essere un operatore che scommette sulla riduzione del prezzo, in modo speculativo.

Dove sta la malvagità di questi contratti derivati? Non c'è una malvagità intrinseca: esistono dal '700 accordi tra operatori industriali o commerciali che vogliono modificare la propria esposizione al rischio di fluttuazione del prezzo di un bene con cui hanno a che fare. Però è vero che i derivati sono oggetti delicati, perché espongono il sistema a forti rischi di insolvenza delle controparti. Perché? Perché i derivati, pur esponendo a piacere ai rischi di fluttuazioni del valore del bene sotteso, non prevedono di acquistare o vendere questo bene fisicamente, né di pagarlo. Quindi manca una garanzia naturale sul fatto che la controparte abbia i soldi per pagare poi le eventuali perdite.
Inoltre, e qui parliamo invece di rischio per i risparmiatori, i derivati più esotici, per esempio quelli che includono opzioni, possono essere difficili da valorizzare per una controparte non professionale.

Facciamo un esempio. Se siete clienti di una banca aggressiva nella raccolta del risparmio, vi sarà capitato di sentirvi offrire certificati legati all'andamento di un indice di mercato, del tipo, per esempio, che se la borsa sale vi spetterà una parte predefinita e limitata di guadagno, mentre se scende fino a un certo punto non perderete nulla. Vi si propone quindi una rinuncia a certe opportunità e a certi rischi. C'è qualcosa di male? Di principio no. Peccato che un risparmiatore non abbia i mezzi per valutare l'equità del patto.

Mettiamola in questi termini: è più probabile che ex post ci avrà guadagnato la banca, o voi? Beh, una cosa è certa: la banca è preparata a fare questo conto, e difficilmente vi vende un certificato il cui valore atteso è negativo per lei.
Forse allora abbiamo un risultato parziale: la finanza, che non è cattiva in sé, se comporta scambi con assimetrie informative, può diventare parassitaria.
Riguardo ai derivati, comunque, siamo solo all'inizio. Ci sentiamo la prossima settimana.

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