martedì 24 settembre 2013

D174 - Il punto sullo shale gas - Parte 4

Quarta puntata del ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ci eravamo fermati l'ultima volta ai rischi ambientali. Avevamo menzionato quelli legati all'inquinamento di falde acquifere e in generale alla dispersione dei liquidi di perforazione, ed avevamo accennato a quelli sismici, su cui mi sembra le preoccupazioni degli studiosi siamo più sporadiche e controverse.
La possibilità di rischi sismici legati all'attività estrattiva di idrocarburi o di altro non è una novità assoluta. Intanto sono possibili fenomeni di instabilità legati allo svuotamento delle rocce madri dagli idrocarburi o da acqua (quando non rimpiazzati da altri fluidi), fenomeno cui in Italia è stato attribuito anni fa il caso della subsidenza in alto Adriatico, cioè abbassamento del livello del terreno e dei fondali.

Uno studio in pubblicazione presso il Journal of Earth and Planetary Science Letters anticipato dal Wall Street Journal dello scorso 27 agosto lega, almeno in termini probabilistici, fenomeni microsismici allo svuotamento degli idrocarburi in un giacimento di petrolio di scisti in Texas, l'Eagle Ford, mentre non trova legami tra sismi e uso della fratturazione idraulica, che invece uno studio precedente degli stessi autori su un altro giacimento texano (chiamato Barnett) ravvisava.

Tutti i timori per ora sembrano aver più presa istituzionale in Europa, sebbene nel vecchio continente lo sfruttamento commerciale del gas di scisti sia enormemente più limitato, mentre le stime riguardo alle riserve sono interessanti, benché inferiori a quelle americane.

In Francia, per esempio, fonti del governo parlavano due anni fa di 500 miliardi di metri cubi di gas tecnicamente sfruttabile nel sud del Paese, mentre il Paese europeo più ricco di gas di scisti, con addirittura la metà di tutte le riserve continentali, è la Polonia, dove nel marzo 2011 il ministero dell’ambiente aveva assegnato 80 concessioni per la ricerca e l’esplorazione, con permessi originariamente acquisiti da gruppi come ExxonMobil, TotalFina, Bp, Bg, Statoil, Shell e le italiane Eni e Sorgenia.

In Gran Bretagna il governo Cameron ha dato recentemente il via alle prospezioni per gli idrocarburi di scisti nel Sussex, sollevando proteste che hanno coinvolto perfino la chiesa anglicana, la quale ha deciso di sfruttare, cedendo i permessi di perforazione, i diritti minerari di ampie terre di sua proprietà.
Quali potrebbero essere le conseguenze nei mercati energetici di un boom anche europeo del gas di scisti? Intanto si prospetterebbero nuovi scenari in termini di minore dipendenza dalle importazioni russe e nordafricane. Poi, la disponibilità di gas a buon mercato valorizzerebbe la scelta industriale italiana di produrre energia termoelettrica prevalentemente a gas, scelta che viene di continuo additata (e solo in parte a ragione) come fattore di nostra scarsa competitività e che invece potrebbe venire emulata da Paesi come la Francia, se confermerà di voler ridurre l'incidenza del nucleare nel proprio mix.

martedì 17 settembre 2013

D173 - Il punto sullo shale gas - Parte 3

Terza puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti). Abbiamo visto che negli Stati Uniti la produzione di gas non convenzionale è esplosa negli ultimi anni, portando a una contrazione delle importazioni, con effetti notevoli sui mercati internazionali non solo del gas, ma anche del carbone diventato più a buon mercato anche in Europa, con conseguenze ambientali negative.

Gli USA diventeranno quindi un esportatore di gas?

Se nel caso del petrolio la legge americana limita le esportazioni, per il gas non è così. Ciò che per ora vincola la possibilità USA di esportare gas sono le infrastrutture.
Il gas naturale si sposta o via tubo o via nave, liquefatto. Le navi per portare il gas USA in Asia o Europa ci sono, ma servono anche terminali di liquefazione, mentre gli USA oggi sono attrezzati con terminali di rigassificazione, cioè recettori, pensati per un Paese a cui serve importare.
Sono già partiti però investimenti per terminali di liquefazione. Quindi, se i giacimenti shale continueranno la tendenza di aumento della produzione (cosa niente affatto scontata come abbiamo visto anche l'ultima volta), è verosimile un futuro con navi metaniere che partono cariche dagli USA.

Torniamo ora agli aspetti ambientali legati alla tecnica del fracking, la fratturazione idraulica che permette l'estrazione degli idrocarburi di scisti.

Forse il principale aspetto critico riguarda il rischio di interazione dei liquidi del fracking – idrocarburo compreso – con le falde acquifere, cosa che secondo i critici e secondo studi della Duke University potrebbe essere alla base di alcuni video piuttosto impressionanti (cercare su youtube per credere) di massaie americane che incendiano con un fiammifero l'acqua del rubinetto di casa.
Sul Financial Times dello scorso 22 agosto, però, viene riportata l'opinione contraria di Susan Brantley, geologa alla Pennsylvania State University, secondo cui alla base dei fenomeni di rubinetti incendiari ci sarebbero sacche di non meglio specificato gas "biogenetico".
Su posizioni intermedie uno studio del MIT del 2011, che ritiene gestibili ma rilevanti i rischi ambientali del fracking, in particolare riguardo allo smaltimento improprio o alla dispersione dei fluidi di perforazione e all'eccessivo consumo di acqua.
Ancora più controversi sono i riscontri della comunità scientifica sui rischi sismici. Ma di questi parleremo martedì.

martedì 10 settembre 2013

D172 – Il punto sullo shale gas - Parte 2

Seconda puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ripartiamo, approfondendo, da dov'eravamo rimasti l'ultima volta. I dati dell'agenzia statunitense per le statistiche sull'energia indicano una quadruplicazione delle riserve certe USA di shale gas tra il 2007 e il 2010, con un livello a fine 2010 già di quasi 3000 miliardi di metri cubi, pari a oltre 40 anni di consumi italiani attuali. E anche la produzione è aumentata tanto da deprimere il prezzo spot a inizio 2012 sotto i 7 centesimi di dollaro al metro cubo (recentemente risalito fino a raddoppiare, ma ancora molto basso rispetto agli anni precedenti e pari a solo un terzo del prezzo italiano nel frattempo quasi allineatosi a quello centroeuropeo).

Da un lato quindi gli USA, che secondo l'International Energy Agency di Parigi hanno un futuro di autosufficienza petrolifera, potrebbero azzerare o invertire anche il proprio import di gas, dall'altro però il crollo così violento del prezzo sta portando a una riduzione pesante dell'investimento in estrazione da parte di aziende come BHP e Shell, come riporta recentemente tra gli altri Bloomberg.

Questo rallentamento negli investimenti secondo i più critici potrebbe essere l'inizio dello scoppio di una bolla: la bolla della filiera della prospezione ed estrazione dello shale gas. Questo accadrebbe se gli investimenti fatti fin qui si rivelassero di colpo non sostenibili in termini di ritorno per producibilità dei giacimenti e prezzo del prodotto. Va in direzione di questa tesi un lavoro dello scorso febbraio di David Hughes del Post Carbon Institute, che afferma che il declino di produzione più veloce del previsto dei giacimenti non convenzionali americani, e la veloce necessità di metterne in produzione degli altri, rendono più alti del previsto i costi fissi per gl'idrocarburi non convenzionali.

Ma qui siamo alle solite: se gli investimenti si fermano, la produzione cala e il prezzo torna in fretta su livelli più sostenibili in termini di ritorno degli investimenti. Detto diversamente: le riserve dipendono dagli investimenti in prospezione ed estrazione, che a loro volta dipendono dal livello e dalla stabilità del prezzo degli idrocarburi. Se il prezzo del gas scende molto, è normale che crollino temporaneamente gli investimenti. In generale, delle variabili macroeconomiche, gli investimenti sono una delle più volatili.
Va in questa direzione, di criticismo alla teoria del picco, per esempio David Blackmon nel blog di Forbes.

Per quanto mi riguarda, mi pare che la contrapposizione tra picchisti e non picchisti sia sterile in termini di conseguenze di politica energetica. Nel senso che le conclusioni a cui arrivano i picchisti (in primis la necessità di abbandonare gli idrocarburi) restano corrette anche se il picco non c'è ancora. Perché gli idrocarburi, non rinnovabili, diventeranno sempre più rari e quindi relativamente costosi da estrarre, oltre che costosi per l'ambiente in termini di danni e di costi di moderazione degli effetti negativi. Quindi affrancarsi il prima possibile dai combustibili fossili è meglio.

La prossima volta ripartiamo dal boom americano del gas di scisti e dagli scambi commerciali di gas tra USA e resto del mondo.

Ringrazio Luca Pardi di Aspo Italia per alcuni dei riferimenti.

martedì 3 settembre 2013

D171 - Il punto (per non addetti) sul boom dello shale gas - 1

Torno dopo la pausa di agosto, e come prima cosa ricordo Dino Marafioti, recentemente scomparso, che centinaia di volte ha introdotto Derrick in versione radiofonica su Radio Radicale il martedì mattina.

Inizia oggi un piccolo ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).
Tema non certo nuovo per chi segue Derrick, ma che voglio riprendere alla luce tra le altre cose della ricerca che ho fatto per la redazione di un articolo su Toscana Energia Box, la rivista di Toscana Energia, e di alcuni scambi con Luca Pardi di Aspo Italia, che ringrazio.

Negli USA il boom dello shale gas ha ormai raggiunto anche l'immaginario dei non addetti, tanto che lo scorso maggio era in programmazione a New York un musical critico, intitolato Marcellus Shale dal nome di una vastissima riserva di idrocarburo di scisti nella zona del New England ben visibile in questa mappa.

L'abusato acronimo NIMBY ("non nel cortile dietro casa mia", in inglese) per simboleggiare l'avversione a insediamenti industriali in questo caso ha una rilevanza quasi letterale, visto che negli Stati Uniti ci sono casi di pozzi di idrocarburi shale realizzati molto vicino a insediamenti abitati, anche perché per sfruttare queste risorse serve un numero maggiore di pozzi rispetto a quanto occorra per gli idrocarburi convenzionali, e ciò è più compatibile con la conformazione geografica e con il diritto degli Stati Uniti che con quelli europei. Negli USA infatti vaste aree superficiali possono essere utilizzate dai proprietari dei terreni (o da chi ne abbia acquistato da loro il diritto) che hanno anche la facoltà di forarli, diversamente da ciò che avviene di norma in Europa.

Perché estrarre idrocarburi non convenzionali richiede più pozzi? Perché il gas o l'olio si trovano intrappolati in rocce scarsamente permeabili e non porose come invece nei giacimenti convenzionali. Una conseguenza è che, per usare le parole dell’esperto Massimo Nicolazzi, nel gas non convenzionale “ogni pozzo è un piccolo giacimento a sé”. Quindi i tanti fori servono per andarsi a prendere direttamente tutto l'idrocarburo, che non arriva per pressione da altre zone della riserva.

Altra caratteristica distintiva dello sfruttamento degli idrocarburi di scisti è la necessità di frantumare le rocce contenenti l’idrocarburo al fine di liberarlo. Questa tecnica, detta fracking, utilizza un’azione idromeccanica con liquidi ad altissima pressione, che una volta recuperati e filtrati restituiscono il petrolio o il gas.

L'esistenza di scisti ricchi di idrocarburi in molte aree del mondo non è una scoperta recente. La novità degli ultimi anni però è che le tecniche di fracking, introdotte per la prima volta negli USA negli anni Quaranta, si sono sviluppate su larga scala a costi più competitivi e con aggiornamenti tecnici, come la capacità di perforare più facilmente in orizzontale.
Il termine "rivoluzione" mi sembra giustificato se non altro per gli effetti di mercato globali che sta comportando.

La prossima volta ne vedremo i dettagli, ma una possibile sintesi è che nel 2012 più di un terzo del gas estratto negli Stati Uniti era shale, contro il 2% nel 2000.

Le conseguenze sono state il crollo del prezzo locale fino a un minimo nel 2012, e la riduzione costante delle importazioni USA con effetti a cascata sul mercato dei combustibili, incluso il mercato del carbone, diventato più economico e più utilizzato in Europa, come conseguenza dell'essere stato spiazzato dal gas in America.

(Curioso, no?, che il continente paladino della lotta ai cambiamenti climatici consumi il carbone che gli USA non vogliono più).