martedì 15 dicembre 2015

Lo sviluppo sostenibile - D259

Cos’è la crescita sostenibile?

Naturalmente è una domanda complessa. La presenza umana sulla Terra ha sempre impatti sulle sue risorse, parte delle quali, per esempio quelle geologiche, non sono riproducibili in tempi rilevanti per l’umanità. Quindi se sostenibilità è lasciare ai nostri figli lo stesso identico patrimonio naturale che abbiamo trovato, è una chimera. Dunque il concetto utile di sostenibilità è relativo, e in parte anche diverso a seconda degli approcci.

Gli ottimisti dicono che ci pensa il progresso tecnologico a ridurre il fabbisogno di risorse non riproducibili a parità di soddisfazione dei nostri bisogni, e ad aumentare la produttività dei fattori, com’è successo per esempio nell’agricoltura dove a parità di terreni i raccolti sono aumentati permettendo buona parte della nostra emancipazione successiva. 
Ma è una posizione un po’ semplicistica, perché le nuove tecnologie vengono spontaneamente applicate solo quando conviene, il che potrebbe essere più tardi di quanto sia desiderabile. Per esempio, la penuria futura di risorse naturali potrebbe essere da un lato prevedibile, dall’altro non aver ancora espresso i suoi effetti economici che potrebbero poi essere più severi di quanto costi anticipare le tecnologie per evitarli. O, più semplicemente, gli agenti privati possono non avere interesse a conservare alcune risorse benché la loro penuria sia già un costo sociale irrazionalmente alto (un esempio, applicato però a risorse rinnovabili, è la pesca incontrollata, che riduce la produttività dei mari danneggiando gli stessi pescatori).
In entrambi i casi le azioni necessarie non arrivano spontaneamente, e sono assimilabili direi a quelli che nel gergo degli economisti sono detti beni pubblici. Beni cioè che conviene alla comunità siano resi disponibili ma che un singolo operatore privato ha insufficiente interesse a rendere disponibili.


L'impronta materiale

Un modo per calcolare quanto i nostri consumi impattano la disponibilità di materie prime non riproducibili è il quoziente tra PIL e valore o quantità di materie consumate per produrlo. Quando si dice che le economie moderne si dematerializzano si intende che questo quoziente si riduce. Se il quoziente si riduce meno del tasso di aumento del PIL, l’economia si smaterializza in senso relativo (i consumi di materie prime aumentano, ma meno del PIL), se invece il quoziente di riduce più di quanto cresca il PIL, l’economia diminuisce il proprio fabbisogno in termini assoluti.
Luca Pardi mi ha segnalato un articolo sul Guardian che cita uno studio agli atti dell’accademia delle scienze degli Stati Uniti, il quale sostiene che le statistiche ufficiali che mostrano la smaterializzazione almeno relativa delle economie più evolute non sono affidabili, perché non tengono interamente conto delle materie prime necessarie a rendere disponibili i beni importati. In altri termini la stima della produttività dei fattori include nelle analisi comuni gli input della produzione ma non l’intero consumo di risorse materiali. Credo che la questione, per analogia, sia simile a quella delle emissioni di gas serra legate all’estrazione di un idrocarburo: esse normalmente non sono computate nelle emissioni legate al suo consumo.

Lo studio però non nega che un cambio di tendenza ci sia, nei Paesi Ocse, e lo fa coincidere con lo shock petrolifero-economico del 2007. Morale: potremmo essere troppo ottimisti sulla smaterializzazione delle economie rispetto alle materie prime fisiche, ma la tendenza c’è, e forse la crisi ha innescato modifiche strutturali. Questo è sufficiente a rendere sostenibile il nostro sviluppo?

(Continuerà).

domenica 13 dicembre 2015

Cosa penso del decreto salvabanche

I salvataggi sollevano sempre problemi di equità

Io non se sia vero che conviene non far fallire le quattro banche insolventi.

Di certo evitare un fallimento socializzandone i costi ha sempre effetti distributivi iniqui, perché estende il danno di una cattiva gestione ai contribuenti, che non hanno scelto di partecipare né con capitale di rischio (azioni o obbligazioni con partecipazione al rischio d’impresa) né finanziario (obbligazioni) alle attività fallite.

Ammettendo però che sia complessivamente conveniente salvare le quattro banche in dissesto, è giusto che chi vi ha conferito capitale tramite azioni e obbligazioni subordinate lo perda?

In prima istanza sì, è giusto, il che non impedisce che in casi di truffa o mancato rispetto sostanziale degli obblighi informativi delle banche emettitrici dei titoli i finanziatori abbiano diritto di rivalersi con gli amministratori.

Perché lo penso:

  1. Se relativizziamo il valore di un contratto (il che peraltro nel nostro ordinamento in alcuni casi avviene) indeboliamo l’affidamento che le parti possono farvi per il futuro, e rendiamo in generale meno sicuro il sistema economico. 
  2. Se deresponsabilizziamo i risparmiatori li rendiamo meno vigili riguardo a chi decidono di finanziare. (Se io so che un’obbligazione mi viene rimborsata anche in caso di fallimento non ho alcun interesse a informarmi e evitare i bond pericolosi, e di conseguenza le loro remunerazioni non sono costrette a salire e così a segnalare un’attività più rischiosa e costringerla a remunerare di più chi la finanzia).
Il problema di equità però torna, perché a il salvataggio altri soggetti che hanno intrattenuto rapporti economici con le quattro banche li tutela, in primis i dipendenti (anche i dirigenti).

Di nuovo la complicazione nasce da un fallimento evitato: se non si fosse evitato le leggi esistenti avrebbero regolato la soddisfazione parziale dei creditori, in questo modo è il Governo, per ora con un decreto, a decidere chi non perde e chi sì.

    Le truffe

    E se ci sono truffe che hanno impedito al risparmiatore di discernere? Il Governo con il decreto avrebbe dovuto secondo me introdurre meccanismi per facilitare in questi casi azioni di responsabilità di azionisti e obbligazionisti contro gli amministratori. Potrebbe farlo il Parlamento nella legge di conversione.

    Anche verso le autorità di vigilanza credo sarebbero ragionevoli azioni di responsabilità.

    Link
    Il decreto "salvabanche" del 22/11/15

    domenica 22 novembre 2015

    Torna #menoinquinomenopago - D256 e 258

    Anche quest’anno ho visitato Ecomondo, la fiera delle tecnologie per l’ambiente che si tiene a Rimini, ma non nel giorno in cui il “Consiglio Nazionale della Green Economy” ha presentato lì un documento intitolato “Qualificare la ripresa con lo sviluppo di una green economy”.

    Chi ne sono gli estensori? Una miriade di università, istituti di ricerca e soprattutto associazioni di industriali. Non sto parlando di industriali che guadagnano solo con l’ecologia: ma anche, per esempio, del settore pneumatici, di operatori ferroviari, di produttori di vetro, di energia, di imballaggi di vario tipo.

    Cosa chiedono questi attori riuniti? In parte soldi, aiuti, eccetera, e questo è normale, chi non lo fa? Ma chiedono anche, e questo è più significativo, di essere responsabilizzati maggiormente e non danneggiati dalle norme italiane se si comportano in modo sostenibile. Chiedono di limitare e contabilizzare l’uso di risorse non rinnovabili come il territorio, di rendere respirabile e razionale la mobilità urbana, di procedere con una revisione green del fisco e usare in altro modo gli incentivi oggi antiecologici. In sostanza, una parte cospicua dell’industria, consapevole di avere davanti un futuro di sfide e investimenti verso la sostenibilità, chiede alle istituzioni di fare politiche coerenti con questo progresso che, se da un lato sta già avvenendo, dall’altro è danneggiato da scelte di governo che lo contrastano perfino.

    Il Parlamento si è espresso in materia? Come no: con la delega fiscale del 2014 impegnava il Governo a una riforma green del sistema delle tasse. Il Governo però ha violato la norma lasciando scadere la delega senza far nulla salvo l’annuncio nel marzo 2015 di un fantomatico Green Act mai presentato. Un testo con questo nome in effetti gira tra gli addetti ai lavori, ma per ora è solo un file di Word non firmato.

    E qui veniamo a #menoinquinomenopago, l’iniziativa di Radicali Italiani e Legambiente che in modo un po’ più dettagliato di altre quantifica i sussidi antiecologici in Italia e propone soluzioni. La prossima puntata dell’iniziativa verrà presentata al senato giovedì 12 novembre 2015 e consisterà in proposte di emendamento alla legge di Stabilità che prevedono, tra le altre cose, la sospensione dei regimi di favore sulle accise sui combustibili fossili (circa 5 miliardi di sussidio antiecologico nell’ultimo bilancio di previsione dello Stato, di cui circa 3,5 solo nel settore dei trasporti commerciali) e il loro utilizzo in riduzione delle imposte sui redditi e in contributi agli investimenti in efficienza energetica.

    La presentazione sarà alla sala Isma del Senato in piazza Capranica 72 il 12 novembre alle 10 con molti dei parlamentari che la supportano, con il segretario e il tesoriere di Radicali Italiani Riccardo Magi e Valerio Federico, con il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini e con il sottoscritto.

    Com'è poi andata


    L’analisi degli emendamenti in commissione Bilancio del Senato si è conclusa con la terza settimana di novembre, e l’unico parlamentare che abbia fatto proprie in questo frangente parte delle nostre proposte è stato il senatore Gianni Girotto del M5S. Sentiamolo ai microfoni di Derrick:




    Grazie al senatore Girotto.

    Con che motivazione il suo emendamento, coerente con la Delega Fiscale e identico all’impostazione che le bozze di Green Act recano, è stato respinto dalla maggioranza in Commissione? Mistero.

    Viene il dubbio che per la maggioranza di governo la revisione green del fisco sia un tema adatto ai convegni ma non ai fatti. Proprio in queste ore il ministro Galletti auspica per l’imminente riunione di Parigi sul clima nuove norme vincolanti, ma non mi risulta abbia criticato la sua maggioranza per l’ostinazione con cui nella politica interna osteggia le stesse riforme.

    Con la settimana dal 23 novembre 2015 inizia l’esame della Stabilità alla Camera, dove speriamo che altri parlamentari raccolgano l’appello di #menoinquinomenopago, come in passato ha già fatto una proposta di legge di Oreste Pastorelli (PSI) firmata anche dal presidente della commissione ambiente Ermete Realacci.

    martedì 17 novembre 2015

    Il petrolio non torna ancora su - D257

    Ci siamo occupati mesi fa del calo violento dei prezzi di petrolio e gas, delle cause e di alcune possibili e già sperimentate conseguenze. La crisi dei prezzi ha coinvolto anche molte altre commodity, cioè materie prime come i metalli, che dopo essere stati beni-rifugio di liquidità hanno anch’esse cominciato a deprezzarsi a causa della diminuita domanda mettendo in crisi anche grandi gruppi minerari internazionali come Glencore, che avrebbe dovuto rilevare lo stabilimento Alcoa di Portovesme in Sardegna, altro tema di cui abbiamo parlato qui.

    Ora è uscito il nuovo outlook dell’International EnergyAgency di Parigi, che dà spunti per ragionare su cosa possiamo aspettarci, e che è commentato per esempio in un articolo dell’Economist di pochi giorni fa.

    Sul lato dell’offerta sappiamo che la nuova disponibilità di petrolio e gas è arrivata negli ultimi anni soprattutto negli Stati Uniti, dove i costi variabili di estrazione sono più alti che nei paesi OPEC. Per questo per capire se i prezzi torneranno a salire per movimenti dell’offerta occorre chiedersi quanta della capacità estrattiva USA verrà meno a causa degli attuali prezzi poco remunerativi. Una riduzione della capacità sarebbe la molla – a parità di domanda – in grado di alzare di nuovo i prezzi.
    Ebbene, i dati IEA mostrano che solo nella primavera 2015 la capacità produttiva USA di petrolio ha iniziato a scemare. E tenendo conto che gli stoccaggi mondiali sono pieni, questo spiega perché i prezzi siano restati fino ad ora ai minimi dell’era recente (da fine 2014 il WTI americano è sotto i 60 $/bbl con punte di 40 nell’estate 2015).

    Una cosa importante che è cambiata con il boom americano di idrocarburi è la capacità dell’OPEC, la cui quota è diventata meno importante rispetto alla domanda, di controllare l’offerta. Mancando questa capacità, scrive l’Economist, quello del petrolio è diventato un mercato “anormalmente normale”, cioè che si comporta – insolitamente nel caso del petrolio - sulla base della disponibilità effettiva di domanda e offerta.

    Prezzi giù oggi quindi, ma la domanda mondiale di petrolio secondo l’IEA riprenderà già quest’anno con un più 1,9%, oltre il doppio che nella media degli ultimi dieci anni. Se sarà sufficiente per un rimbalzo dei prezzi, e quanto rapido, mi pare che nessuno sappia prevederlo.

    martedì 3 novembre 2015

    Ambientalismo e ideologia - D255

    Com’è difficile avere delle opinioni senza che queste si trasformino nel fare il tifo per una parte o per l’altra perdendo in realtà la capacità di discernere e di cambiare idea. Questo incarnirsi dei giudizi per me rallenta il progresso intellettuale.

    Ma c’è di peggio, fateci caso: le posizioni precostituite spesso vengono a gruppi: se sei uno che la pensa in un modo su una cosa, ci si aspetta che la pensi in un determinato modo anche su questioni apparentemente contigue.

    Tra un po’ mi consacrerò al mutismo come il personaggio di “La vergine Anna” nelle Novelle della Pescara di D’annunzio pur di non dover più spiegare ai conoscenti che sì: credo nell’iniziativa economica privata e nelle virtù sociali della ricerca individuale del profitto, e che però anche – pensa un po’ - credo che i mercati funzionino solo dove lo Stato è tanto forte da garantire affidabilità delle transazioni, trasparenza delle informazioni, tutela dalle posizioni di dominanza.

    Poi, penso che un lavoratore che il suo datore di lavoro ritenga improduttivo debba poter essere licenziato, ma anche che abbia diritto a un reddito minimo a spese della società se non trova un'altra occupazione.

    Ma sei liberista o socialista? Deciditi, mi chiedono. E io ripenso alla vergine Anna.
    Un'illustrazione di Andrea Gatti per Derrick

    Un articolo di Maria Rita D'Orsogna sul Fatto Quotidiano del 29 ottobre 2015 (poi modificato nella versione online) parla di terremoti causati da attività di estrazione del gas nella regione di Groningen in Olanda, e racconta come in più casi le società d’estrazione abbiano accettato di rimborsare i danni e di come gli abitanti della zona abbiano vinto una class action che comporterà rimborsi enormi. Non ho studiato i fatti di cui parla la D’Orsogna, ma non ho motivo di ritenere che le cose non stiano così. Abbiamo già visto a Derrick (parlandone per esempio qui e qui) che gli scienziati in alcuni casi rilevanti hanno riconosciuto interazioni tra attività sismica e estrattiva.
    Però mi dispiace che la D’Orsogna nello stesso articolo si autoghettizzasse chiarendo da che parte sta ideologicamente, quando sintetizzava (non più nella versione online successiva a questo post) che il (o un) problema dei petrolieri è che pensano solo a “massimizzare gli introiti”.
    Ma che vuol dire? Sarebbero più gradevoli i terremoti con dei petrolieri che guadagnassero un po’ meno o trivellassero per passione? Ma dove sta scritto che se vuoi la tutela dell’ambiente devi anche avercela col profitto?

    E se io pensassi che i petrolieri fanno benissimo a cercare di massimizzare gli introiti ma che i Governi e le agenzie di controllo debbano lottare per porre tutti i vincoli che lo stato dell’arte delle conoscenze gli suggeriscano come appropriati? Il problema non è la ricerca del profitto dei petrolieri, ma la capacità degli attori istituzionali di far emergere e quantificare correttamente gli interessi opposti, senza commistioni nello stesso soggetto. Il problema è la forza delle istituzioni e la trasparenza della loro dialettica.
    Se non si fosse capito non ce l’ho con la D’Orsogna che si documenta molto e continuerò a leggere. Anzi mi ha fatto ulteriormente riflettere, e mi chiedo, in conclusione:

    Se uno stigmatizza il profitto, come pensa di migliorare il mondo, facendo l’elettroshock alla gente che naturalmente lo persegue? Se uno invece accetta e incoraggia il profitto può aspirare a uno Stato forte, ma non paternalista, che non fa un’inutile morale alla gente, ma ne difende i diritti massimizzando nel contempo le risorse per farlo.

    martedì 29 settembre 2015

    Autonomia elettrica domestica: quanto costa? - D251/2

    L’ultima volta abbiamo parlato di riforma delle tariffe elettriche di contribuzione agli oneri generali di sistema, e abbiamo visto che si pagherà più in base alla dimensione del collegamento alla rete che ai consumi.
    E se io mi stacco dalla rete? Posso risparmiare? Domanda che gli ascoltatori di Derrick si fanno (e mi fanno) sempre più spesso.

    Per rispondere ci è prezioso uno studio dell’RSE, l’istituto pubblico di ricerca energetica già altre volte ospitato qui a Derrick, che confronta, per alcune tecnologie oggi disponibili, il costo dell’energia acquistata dalla rete alle attuali tariffe di riferimento domestiche con quello che si avrebbe producendo (e stoccando) energia elettrica da soli, in totale autarchia.
    Lo studio integrale non è ancora pubblicato ma Derrick ne ha preso visione, e ce ne parla Luigi Mazzocchi (ingegnere, direttore del dipartimento tecnologie di generazione e materiali di RSE SpA):



    La soluzione più economica tra quelle esaminate dal RSE prevede l’abbinamento di un microcogeneratore, cioè un piccolo motore a gas naturale che muove un generatore elettrico da 1,5 kW (sufficiente a far funzionare una lavatrice) e produce calore per gli usi domestici, più pannelli fotovoltaici e una batteria al litio di capacità di 3,5 kWh (sufficiente a un paio di cicli di lavatrice).

    Mazzocchi, l’abbiamo sentito, ci ha spiegato che per ora ai consumatori domestici staccarsi non conviene, se non a clienti con consumi molto al disopra di quelli di una famiglia normale. Il maggior costo rispetto a comprare dalla rete potrebbe però essere ridotto non solo dai miglioramenti tecnologici, ma anche dall’eventuale peggioramento delle bollette in caso di aumento ulteriore degli oneri parafiscali. Come dicevamo la volta scorsa, questo è un punto fondamentale: una buona parte dell’incentivo all’autarchia viene non dal livello dei costi di una simile scelta, ma dalla possibilità di non pagare la parafiscalità delle bollette (costi evitati).


    Comuni energetiche: quanta autonomia avrebbero?

    Mi scrive Lorenzo Busciglio, sindaco di Beinette in provincia di Cuneo, che chiede se sia immaginabile il distacco dalla rete elettrica nazionale di un’intera comunità locale.

    Domanda non facile e riguardo alla quale occorrono dei distinguo: per servire una comunità locale di clienti elettrici occorre una rete di distribuzione su cui i venditori di energia possano farla transitare. La gestione di questa rete (cioè l’attività di distribuzione) è affidata per legge in concessione dal Governo e poi regolata dalle norme di settore dell’Autorità per l’Energia. Concessione che quindi la comunità, se volesse essere autonoma, dovrebbe acquisire, sostituendosi nell’area interessata al concessionario uscente non si sa bene come, visto che nuove gare di affidamento non sono all’orizzonte.

    E non ritengo che il semplice fatto di non essere collegati alla rete di trasmissione nazionale (cioè il fatto di autoprodursi e stoccarsi l’energia) permetta a una rete locale di considerarsi estranea alle norme sulla distribuzione elettrica. Infatti anche le isole non interconnesse con il continente sono oggi concessionarie del servizio di distribuzione locale (anche se lo operano in deroga a molte delle regole di assetto di mercato che valgono nelle grandi reti locali interconnesse).

    Potrebbe essere diverso il caso di una vera comune energetica ad isola: cioè di un unico soggetto che produca e porti energia a vari punti di consumo su una propria rete non collegata ad altre e senza vendere o misurare l’energia. In altri termini: se un comune producesse e fornisse energia ai suoi cittadini senza un corrispettivo ma ripagandosi con le tasse, sarebbe trattato come un distributore elettrico dalle norme? Forse no.


    Qualità dell'autofornitura

    Tornando al caso di un singolo cliente, abbiamo visto la volta scorsa che l’autonomia costa per ora di più. Ma costi a parte, un sistema autonomo di generazione e stoccaggio di elettricità garantisce la stessa affidabilità? Di sicuro è più complicato e impegnativo avere questi apparecchi in casa che essere un semplice cliente del sistema elettrico.
    Sentiamo su questo ancora Luigi Mazzocchi:





    Fascino dell'autonomia e rifiuto del mercato?

    A me sembra che in questo desiderio diffuso di autonomia energetica ci sia anche una componente per così dire sentimentale: voglia di libertà e autonomia, e anche po’ di avversione (forse ingenua) per le transazioni economiche esplicite e intermediate, come se invece il baratto e l’autonomia ci rendessero più puri. Razionale o no, però, una cosa è abbastanza certa: l’autonomia energetica è già fattibile, e tra qualche anno potrebbe diventare abbordabile.

    martedì 22 settembre 2015

    Chi pagherà le reti dell'energia? - D250

    Chi ascolta Derrick sa che il prezzo dell’energia che paghiamo nelle bollette è solo in parte, e una parte ormai minoritaria, legato ai costi vivi di produzione o approvvigionamento di luce o gas. Anche perché nell’elettricità, che viene ormai in Italia per un terzo da fonti rinnovabili, è crescente la quota di energia che non ha costi di combustibile, bensì fissi, legati alla realizzazione e manutenzione degli impianti stessi.
    Poi ci sono gli incentivi alle fonti rinnovabili, sempre pagati come oneri in bolletta, e i costi delle reti, e altri minori. Si possono chiamare parafiscalità perché come nel sistema fiscale coprono spese per servizi e infrastrutture di interesse generale, che in questo caso afferiscono però al sistema dell’energia.

    Se però le tasse si pagano sul reddito, questi oneri per la maggior parte si sono finora pagati in base ai volumi di consumo d’energia, benché in modo non progressivo come invece vale per le tasse sul reddito. I grandissimi consumi di energia anzi pagano in proporzione molto meno parafisco nelle bollette di quelli medi.

    Ma che succede se uno l’energia se la produce sul tetto di casa o con un microgeneratore autonomo? A norme attuali, dove rilevano i prelievi dalla rete, succede che paga meno paratasse, e contribuisce meno ai costi generali energetici. E siccome l’autoproduzione è in effetti sempre più comune, il problema di sostenibilità economica delle infrastrutture generali si pone.

    Il 3 settembre 2015 il ministro dello Sviluppo Economico Guidi ha firmato una risposta scritta a un’interrogazione parlamentare dei senatori Girotto e Castaldi del M5S che criticano una riforma tariffaria avviata dall’Autorità dell’energia che mira proprio a rendere meno legati gli oneri in bolletta ai consumi, e più alla potenza di allaccio alla rete, cioè alla capacità massima di prelievo o immissione.
    La proposta di modifica vuol quindi far pagare più oneri non a chi preleva tanta energia, ma a chi ha bisogno di una forte connessione alla rete anche solo di emergenza, in caso di guasto dell’autogeneratore.

    Scrive il ministero dello Sviluppo nella sua risposta ai due senatori:
    Se tutti i consumatori si autoproducessero l'energia di cui abbisognano pagando gli oneri solo in minima parte, non si capirebbe chi dovrebbe pagare questi oneri. Né si capirebbe chi dovrebbe sostenere la spesa per mantenere e ammodernare la rete elettrica.

    La preoccupazione del Governo è comprensibile, ma la soluzione di legare gli oneri alla dimensione della connessione alle reti potrebbe rivelarsi presto inefficace o addirittura controproducente.
    Infatti all’autoproduzione elettrica diffusa (che è stata resa possibile prima dai sussidi alle rinnovabili e poi facilitata dal calo dei prezzi degli apparecchi) potrebbe aggiungersi l’autostoccaggio dell’energia attraverso batterie. E quindi la capacità di produrre e consumare non contemporaneamente, affrancandosi dal bisogno di cedere alla rete eccedenze o di prelevarne il disavanzo produttivo. Da cui, la possibilità di staccarsi del tutto dalla rete, e diventare un’isola energetica.

    Se questo succederà, e io credo che prima o poi per alcune categorie di consumatori succederà, la platea dei percettori di bollette cui far pagare i costi delle infrastrutture energetiche generali si ridurrà. Comprare un kit di produzione e stoccaggio domestico di elettricità sarà come liberarsi di un po’ di Stato. Se non del fisco, almeno del parafisco energetico.

    Un problema di budget pubblico.

    Ma un effetto positivo questa minaccia potrebbe averlo: costringere i regolatori a contenere la dimensione del parafisco delle bollette, se vogliono ritardare la convenienza dell’autarchia energetica ed evitare un fuggi-fuggi generale.

    martedì 15 settembre 2015

    I tempi sempre più bui del nucleare - D249

    Poco meno di due anni fa parlammo qui della decisione del Governo inglese di assicurare a Electricité de France 92 sterline al MWh per 35 anni per la futura produzione di elettricità da fonte nucleare dell’impianto da costruire a Hinkley Point. Un prezzo che è più che doppio di quello del mercato all’ingrosso, che in Italia per esempio, passata l’afa di luglio, è tornato sotto i 50 euro.

    Sulla decisione inglese protestarono gli ambientalisti di Greenpeace, ma anche produttori concorrenti che ravvisavano un aiuto di Stato illegittimo, perpetrato perdipiù – aggiungo io - proprio nel Paese che inaugurò la liberalizzazione dei mercati europei dell’energia.

    La Commissione Europea invece, in quello che a me sembra l’assecondamento di protezionismi nazionali tipico di un organo politico in difficoltà, in questo come in altri casi recenti ha acconsentito agli aiuti. Sono i contribuenti inglesi che però adesso iniziano a preoccuparsi, come riporta la stampa specializzata degli ultimi giorni, tra cui l’utilissimo compendio di Luca Tabasso su Quotidiano Energia da cui riporto:
    il senior research fellow di Chatham House Antony Froggatt ha quantificato in oltre 40 miliardi di sterline i sussidi [alla nuova centrale nucleare] […]. Peter Atherton, analista della banca d'investimento Jefferies, ha calcolato […] che i 3.200 MW dei due nuovi reattori [previsti] costeranno come quasi 50.000 MW a gas: "Ciò significa che con la stessa spesa si potrebbe sostituire l'intero parco termoelettrico britannico, per gran parte obsoleto e inefficiente, con cicli combinati di ultima generazione a basse emissioni e alta efficienza", ha dichiarato Atherton al Guardian.
    Aggiungo che il nuovo impianto nucleare britannico arriverebbe comunque troppo tardi per evitare almeno parte dei costi dell’ammodernamento del parco termoelettrico cui si riferisce Atherton.

    Il Governo inglese dal canto suo ha iniziato a dare segni di ripensamento, facilitati dal fatto che – stando a notizie di stampa recenti - nemmeno ai prezzi pattuiti EDF e il costruttore sempre francese e di Stato Areva sembrano in grado di garantire la fornitura.
    Areva che l’anno scorso ha perso 5 miliardi di Euro e che da sette anni non riceve ordini per nuove centrali, come scrive Gero Reuter di Deutsche Welle, e che nei suoi due canteri aperti per impianti con la stessa tecnologia assiste a un lievitare di costi e tempi che sembra senza fine, come abbiamo visto varie volte qui a Derrick.

    Un esempio è il nuovo generatore normanno di Flamanville: costerà almeno tre volte quanto avrebbe dovuto, attestandosi sulla decina di miliardi di Euro, e problemi tecnici continuano a rimandarne l’ultimazione.

    domenica 23 agosto 2015

    La mafia mentre stiro

    Ieri facevo svogliatamente faccende domestiche accompagnato da Radio Radicale. Tra le cose che mi hanno colpito ci sono state le interviste a parenti e seguaci del defunto Casamonica e una dichiarazione di Saverio Borrelli a un convegno mi pare a Cortina.

    I signori vicini a Casamonica raccontavano un po’ sguaiati di come lui fosse una brava persona, di come non avesse i soldi per il funerale che ha richiesto infatti una colletta, di come se i politici ladri dessero lavoro a tutti anziché rubarsi le pensioni non ci sarebbero problemi eccetera. Sembravano povere persone ignoranti, non braccianti di criminalità. Ma anche quando sento sicari o pezzi grossi di mafia parlare nei processi, mi sembrano persone di modeste capacità, non mi sembrano dei leader del male granché sagaci.

    Borrelli invece ha risposto a una domanda su come mai Mani Pulite non abbia sconfitto la corruzione.
    “Perché non lo vuole la gente” ha detto, e qui ho posato il ferro da stiro. E ha fatto esempi del tutto prosaici, come il divieto di sosta: “La gente è dalla parte del rispetto delle norme sul divieto di sosta? No, altrimenti non sarebbero così massicciamente violate nelle nostre città”.
    Ho pensato a quante volte da amici romani ho sentito la battuta “a Roma il parcheggio te lo devi inventare” detta con aria di chi la sa lunga e a cui non viene in mente che anziché di inventiva si tratta di disponibilità a violare le regole confidando di non essere beccati e che i controlli siano inefficaci.

    Allora mi chiedevo, spostando la manopola su “lino”: noi siamo un Paese mafioso e corrotto perché? 

    Perché ci sono organizzazioni criminali imbattibili in grado di travisare l’intera comunità?
    La mafia certo è feroce, ma secondo me non avrebbe la forza culturale di rendere corrotta una società per il resto sana. Piuttosto è cresciuta grazie alla disponibilità generale alla corruzione e al clientelismo che da noi sono per qualche motivo consolidati.
    Che so: non essere onesti nelle proprie affermazioni per evitare di pestare i piedi a un potente il cui aiuto in futuro potrebbe servirci. (I leccaculo: ne è pieno ovunque). Sabotare chi è più bravo per evitare che acquisisca visibilità e magari faccia le scarpe a uno della nostra cerchia. (I network di amici che si proteggono come massoni all’interno del loro contesto professionale).
    Questa anche è corruzione, mica solo il finanziere che prende le mazzette. Questo è il substrato della mafia, pur così lontano dalle lupare. Io penso che senza questa mafia e corruzione diffusa, priva in molti casi di violazioni alle leggi ma certamente contraria alla deontologia di qualunque lavoro, non ci sarebbero le mazzette dei finanzieri e le lupare, o sarebbero un fenomeno isolato dagli anticorpi sociali.

    E forse le esequie del padrino Casamonica hanno avuto così tanto seguito perché sono utili a dare al male una veste folk e lontana da noi, e ci permettono di esecrarlo sentendocene estranei. Ma le cose sono più complicate.

    martedì 28 luglio 2015

    Quattro chiacchiere estive sulle tasse - D248

    L’aliquota dell’addizionale all’Irpef pagata in Lazio era del 1,73% nel 2013, per salire nel 2014 al 2,33% per i redditi sopra 15.000 euro/anno (tranne quelli dei contribuenti con redditi sotto 28000 o sotto i 55000 o più se con tre figli o più). Nel 2015 l’aliquota di 2,33% passa alla cifra record in Italia di 3,33% per tutti i soggetti con un reddito superiore a 35.000 (o a 55.000 euro o più se con tre figli o più).

    Stando alla lettera della norma quindi basta guadagnare 35.001 euro nel 2015, avendo meno di 3 figli a carico, per pagare il 3,33% su tutti i redditi superiori ai 15.000. Per esempio, la famiglia di un impiegato o un’impiegata monoreddito di 35.001 euro con 2 figli a carico – che non definirei ricca – in tutto quest’anno pagherà 320 euro in più di addizionale Lazio all’IRPEF rispetto al 2013.

    Perché? Per onorare i debiti contratti con il sistema clientelare dagli amministratori laziali (qualificabili come volete voi, di sicuro non parchi con il denaro pubblico) che si sono recentemente susseguiti.
    Zingaretti dice che non li ha fatti lui questi debiti, vero. Ma la responsabilità politica di onorarli, anziché di fare bancarotta, e di onorarli a spese della classe media dei non evasori colpevoli solo di vivere nel Lazio è certamente di Zingaretti, e non riesco a trovarne implicazioni redistributive “di sinistra” o anche solo eque. Ma su questo chiedo aiuto ai sempre attenti ascoltatori.

    Se la politica fiscale di Zingaretti fa pagare il conto dei debiti anche alle famiglie monoreddito con tenore di vita modesto, ma almeno tutela i redditi molto bassi, la recente uscita di Renzi sull’eliminazione dell’imposta sulla prima casa invece introduce una clamorosa fregatura per le classi in difficoltà economica prive della proprietà della casa di residenza, che non vedranno un euro dei 4 miliardi restituiti ai proprietari di prima casa, per giunta restituiti proporzionalmente al valore della casa: più vale la casa, più ci si guadagna con la cancellazione dell’imposta. In più, è assai probabile che saranno anche i contribuenti con redditi bassi e senza casa a dover pagare il conto dei 4 miliardi necessari in termini di minori servizi.

    Ricorda Claudio Paudice sull’Huffington Post che il consigliere economico di Renzi Gutgeld definì l’abolizione dell’imposta sulla prima casa "un'operazione da Robin Hood alla rovescia, [in cui] si prende ai poveri per dare ai ricchi, un cedimento alla destra populista".

    Ora evidentemente Gutgeld ha cambiato idea per contratto. Ma se il contratto di un consigliere prevede di dare consigli sulla base della propria competenza a chi lo paga, forse quel contratto lo stanno interpretando male sia il pagatore che il pagato.

    martedì 21 luglio 2015

    Articolo su QE: "Tutela, attenzione all'incentivo perverso"

    Mio articolo apparso il 21/7/15 su Quotidiano Energia:

    Mi sforzo di essere ottimista: l’emendamento di maggioranza circolato oggi (21 luglio) sulla parte energia del ddl concorrenza ha elementi che fanno ben sperare riguardo alla maturazione del nostro mercato retail dell’energia. Per esempio il mantenimento almeno in linea di massima della data di inizio 2018 per la fine delle tariffe “politiche” dell’energia (che per noi ritardano lo sviluppo di un mercato efficiente in nome di un paternalismo rispetto ai clienti che è assente in altri settori comparabili).

    Nello stesso tempo l’istituzione di una sorta di autorizzazione alla vendita – purché accompagnata da minori oneri finanziari e maggiori standard di servizio e corresponsabilizzazione nei rapporti venditori-distributori – potrebbe migliorare la qualità commerciale del servizio al cliente e aiutare tutti a scegliere bene il fornitore.

    La cosa un po’ sconcertante è che il legislatore voglia subordinare la data fatidica di fine “tutela” (che per noi sarà  l’inizio di un mercato più efficiente) all’applicazione di regole (il brand unbundling tra distributori) e infrastrutture (il Sistema Informativo Integrato) che sono già normate da tempo.

    È troppo ingenuo affermare che in uno Stato di diritto se regole già vigenti non vengono rispettate debbano essere sanzionati gli operatori che non le rispettano, anziché sospese le ulteriori riforme?


    Senza contare l’incentivo perverso che un simile meccanismo può creare: chi vuole ritardare il mercato potrebbe farlo (per legge!) non rispettando le regole, incluse leggi (brand unbundling) già da anni violate e di cui per fortuna, dopo Aiget, si è ricordata la Commissione UE.

    Michele Governatori

    sabato 18 luglio 2015

    Alluminio a Portovesme e sussidi all'energia - D243-7

    Molte puntate fa con Stefano Mottarelli facemmo un ciclo sul prezzo politico dell’elettricità assicurato in vari modi allo stabilimento poi chiuso di Alcoa a Portovesme, sulle rive sudoccidentali della Sardegna, a due passi dal bellissimo capo di Portoscuso e dall’isola di Carloforte.

    Lì ha sede lo smelter (questo il nome tecnico dell’impianto per questa fase di lavorazione) per la produzione di alluminio a partire da un semilavorato (detto allumina) della bauxite, il minerale in cui in natura si trova il metallo in forma ossidata.

    L’impianto  usava grandissime quantità di energia elettrica che in un modo o nell’altro ha pagato sempre molto meno del suo prezzo di mercato, fino a far incorrere il Governo nell’ingiunzione europea di farsi restituire parte di questi sussidi, come abbiamo visto.
    Tutto iniziò nel ’96 quando la holding pubblica EFIM dismise lo stabilimento e per facilitarne l’acquisto promise all’acquirente una tariffa agevolata dell’elettricità. Il che allora si poteva fare stabilendo che il monopolista elettrico pubblico del tempo, l’Enel, facesse un accordo ad hoc. Con la liberalizzazione, la tariffa di favore è diventata uno sconto gestito dal sistema di perequazione delle bollette, pagato quindi non più con minori proventi dello Stato – e quindi con le tasse – bensì direttamente nelle bollette. Uno dei tanti casi di fiscalizzazione delle bollette diventate così veicolo di politica industriale.
    Questo sconto però era difficilmente compatibile con il mercato dell’energia e aveva caratteristiche tali da assimilarlo secondo l’UE a un aiuto di stato illegittimo. Da cui la sua interruzione e la fine, almeno per ora, dell’operatività dello stabilimento.

    Cosa ci fa lo smelter di Portovesme con l’elettricità? Ce lo facciamo spiegare subito da Pierfrancesco Sedda, ingegnere dello stabilimento che coinvolgeremo in questo nuovo ciclo di puntate scritte con Elisa Borghese.



    Ci raccontava poi Sedda che la potenza assorbita dal processo ha raggiunto punte di 170 mila ampère di corrente elettrica (per capirci, un appartamento con tutto acceso ne assorbe al massimo poche decine). In effetti negli ultimi anni di funzionamento lo stabilimento consumava da solo circa un quinto dell’elettricità consumata in Sardegna.

    Se chiediamo a Sedda, lui ci dice anche che a suo avviso si tratta di un’azienda tecnicamente competitiva rispetto ai suoi concorrenti di riferimento in Europa:




    Da tempo in effetti il gruppo svizzero Glencore, che ha altri stabilimenti metallurgici nella zona di Portovesme, sembra interessato a rilevare lo smelter Alcoa. Negoziati gestiti dal Governo pare abbiano portato alla firma di un protocollo tra aziende, Governo e Regione Sardegna, protocollo di cui Derrick non ha per ora disponibilità, in cui le istituzioni si impegnerebbero a facilitare l’acquisizione dello stabilimento da parte di Glencore senza concedergli aiuti sul prezzo dell’energia tali da violare come in passato le norme UE sugli aiuti di Stato.

    Questo potrebbe voler dire non ripetere forme di sussidio, oppure confidare in norme più lasche sugli aiuti alle imprese sui prezzi dell’energia.


    Nuove lineeguida UE

    In effetti nel 2014 l’UE ha diffuso in materia nuove lineeguida più tolleranti rispetto alla possibilità che alcuni oneri amministrati della bolletta siano ridotti per tener conto dell’esposizione alla concorrenza internazionale dei consumatori industriali energivori.
    Queste nuove lineeguida sono probabilmente l’esito di pressioni tedesche, come abbiamo raccontato a Derrick, avvenute dopo la messa in mora della Germania perché esentava dall’onere per il sussidio alle fonti rinnovabili i consumatori energivori.

    Insomma l’Europa da un lato persegue la decarbonizzazione e le fonti rinnovabili considerando questa strategia vantaggiosa per tutti nel lungo termine, dall’altro ammette che sia accettabile non farne arrivare il segnale economico ad alcuni comparti, gravando con i costi energetici di breve periodo delle politiche green solo le aziende manifatturiere non energivore e non in competizione internazionale, il terziario e i clienti domestici.

    Ma questa politica strabica rende la transizione all’economia decarbonizzata meno efficace e più costosa, perché impedisce che in tutto il sistema arrivino segnali di prezzo coerenti a innescarla.


    I nostri prezzi dell'energia

    Anche un’altra cosa però è cambiata dai tempi in cui Alcoa decideva di chiudere Portovesme: i prezzi dell’energia elettrica all’ingrosso in Italia hanno continuato a scendere e attualmente sulla borsa elettrica un megawattora costa meno di 50 contro gli oltre 75 medi del 2012. Sempre però sensibilmente di più che nei Paesi con cui confiniamo, mentre gli oneri in bolletta non legati al prezzo di mercato dell’energia hanno complessivamente continuato a salire.
    (Pensate per esempio che stiamo ancora remunerando il capitale delle reti energetiche italiane a un tasso precedente al quantitative easing, che non tiene quindi conto dei bassi tassi di interesse sul debito pubblico, i quali invece stando alle norme dovrebbero esserne il punto di riferimento).


    Lo stato degli accordi Governo-Glencore-sindacati

    Come abbiamo visto, Glencore, il gruppo svizzero che ha sinergie rispetto all’attività dello stabilimento di Portovesme, sta valutando l’acquisizione dello smelter di Alcoa, e come il suo predecessore chiede facilitazioni allo Stato. (Ve ne sarete accorti: il capitalismo contemporaneo prevede, e non solo in Italia, che le grandi aziende si facciano pagare dalla collettività per insediarsi).

    Abbiamo su questo il contributo di Marco Bentivogli, segretario metalmeccanici della Cisl, che ringraziamo e che ci racconta dell’intesa già siglata tra Governo, Glencore e sindacati:



    A Bentivogli abbiamo anche chiesto il testo del memorandum, ma lui non ce l’ha dato, e noi non siamo ancora riusciti a venirne in possesso.
    È corretto che un’intesa già siglata, che implica l’uso di risorse pubbliche e effetti distributivi pubblici non sia essa stessa pubblica? Secondo Derrick no. Chi dovrebbe rendere pubblico il documento è il Governo. Se invece è già online da qualche parte e Derrick non è stato in grado di trovarlo, forse converrebbe renderlo più reperibile, e naturalmente questo microfono è aperto in particolare al ministro Guidi delle Attività Produttive e ai suoi collaboratori, se ora il file è in mano a questo Ministero, se vorranno fornirci informazioni o commenti.

    Bentivogli ci parla anche del nodo prezzo dell’energia per lo stabilimento:



    Qui però siamo alle solite. Aldilà dei nomi fantasiosi che sono stati dati alle tariffe elettriche scontate, il punto è: sono ridiventati oggi accettabili sconti ad hoc a imprese a spese delle bollette che alla fine dei tempi di Alcoa non lo erano più?

    Sopra abbiamo visto che in effetti nelle norme europee qualcosa è cambiato, e stando a quanto dice Bentivogli potrebbe mancare poco a sapere se adesso uno sconto politico otterrà l’ok di Bruxelles.


    Costi energetici=costi politici?


    Non sono importanti solo i costi dell'energia per fare alluminio. Lo sono anche quelli di approvvigionamento e trasporto della materia prima (la bauxite), con la differenza che sarebbe più complicato – benché logicamente identico – chiedere allo Stato di fornire bauxite a un prezzo politico e di far pagare la differenza ai contribuenti.

    Con l’elettricità sembra più naturale perché le bollette come sappiamo hanno componenti regolate con varie perequazioni tra consumatori le quali sono determinate dalle norme primarie e dalle delibere dell’Autorità di settore.

    Un’alternativa a chiedere sconti politici sull’energia, da parte dell’industria in crisi, è chiedere la costruzione di una centrale elettrica ad hoc con soldi in parte pubblici e gestione in parte svincolata da criteri di economicità. Su questo si basa l’ormai secolare storia dello sfruttamento del carbone del Sulcis, sempre stato diseconomico fin da quando col fascismo si decise di svilupparlo con soldi pubblici per fornire energia all’industria locale.

    Bene: ricorderete che un altro stabilimento metallurgico per la produzione di alluminio sempre a Portovesme è, anzi era, quello di Eurallumina, chiuso ormai da anni.
    Nel 2012 le istituzioni statali e regionali siglarono un accordo che prevedeva la costruzione di una nuova centrale a carbone cofinianziata da soldi pubblici per rifornire lo stabilimento. E nel documento si scriveva tra l’altro che l’assenza di una rete di gas naturale in Sardegna costituiva un handicap per l’industria locale.
    Quest'ultima affermazione, se guardiamo la cosa dall’aspetto dei costi d’approvvigionamento per Eurallumina o Alcoa, oggi è totalmente sballata: se escludiamo i picchi da caldo estivo, le centrali a gas sono quelle che perdono più soldi con gli attuali prezzi di mercato dell’elettricità, a maggior ragione se come nel caso previsto nell’accordo per Eurallumina devono produrre con costanza anche vapore non potendo quindi spegnersi quando il prezzo dell’energia è più basso dei costi di combustibile.

     Questioni del gas a parte, un documento del 2015 scovato da Elisa Borghese mostra che la richiesta di autorizzazione per una centrale a carbone finanziata in parte con soldi pubblici è partita davvero. Dunque in un contesto in cui in Italia non mancano certo le centrali elettriche (la capacità installata è circa doppia della massima punta di consumo) si pensa che ne serva una nuova per rendere economica l’energia.

    Mi chiedo: se l’obiettivo è far pagare ai cittadini uno sconto politico sull’elettricità, quale metodo peggiore che costruire una nuova centrale socializzandone i costi di investimento? È come se, volendo fare gli sconti al pedaggio di un’autostrada semivuota a una categoria privilegiata, io chiedessi di costruire con soldi pubblici un’altra autostrada parallela dedicata a loro.


    Puntate realizzate con Elisa Borghese
    Grazie a Marco Bentivogli e Pierfrancesco Sedda.

    domenica 24 maggio 2015

    Studio Nomisma Energia su benefici mercato energia - D242

    "Gl’italiani sopportano praticamente di tutto, tranne le tasse e il rispetto dei diritti civili".
    Lo scrive Matteo Ferrario ne Il Mostro dell’Hinterland, romanzo appena uscito per i tipi di Fernandel e alla cui presentazione parteciperò giovedì 28 maggio alle 18.30 a Milano alla libreria Il mio libro di Cristina di Canio in via Sannio 18.

    Il 19 maggio 2015 si è svolto a Roma un convegno di Nomisma Energia dedicato agli effetti per i consumatori delle liberalizzazioni del mercato dell’energia, cui ho partecipato anch’io. Il tema è d’attualità perché il disegno di legge del Governo detto dl concorrenza (di cui abbiamo già parlato qui), che deve ancora passare in Parlamento e su cui alla Camera si stanno svolgendo audizioni a operatori, prevede che dal 2018 scompaiano le tariffe cosiddette di tutela per energia elettrica e il gas, tariffe che sono stabilite dall’Autorità per l’energia sulla base di indicatori di costo o di mercato. Il legislatore europeo e l’antitrust ritengono che una volta che il settore è transitato alla concorrenza simili meccanismi non servano più, anzi danneggino la competizione sul mercato.

    Nomisma Energia ha presentato in occasione del convegno uno studio in cui sostiene che il mercato in effetti funziona. Se ci focalizziamo sulla fornitura di gas e elettricità alle abitazioni, spiega Nomisma Energia che con la concorrenza l’offerta si è arricchita di servizi aggiuntivi di ogni tipo, da ammennicoli come le raccolte punti a assicurazioni sulla casa o altro, e ha permesso offerte a prezzo fisso che prima non c’erano.
    Sì, ma a livello di prezzo? Si risparmia sul cosiddetto mercato libero rispetto alle offerte standard cui accede un cliente che non abbia mai scelto un nuovo fornitore? Sì. Volendo, si risparmia. La stessa Autorità per l’energia con il suo Trovaofferte permette una comparazione, anche se con molte semplificazioni, e mostra che ci sono molte offerte di altrettanti operatori che battono il prezzo regolato. Queste offerte hanno generalmente una cosa in comune: sono stipulabili via web.

    È strano? No, non lo è. Aldilà della retorica sulle bollette, un cliente domestico medio spende per elettricità e gas non molto del suo budget, troppo poco e con margini troppo piccoli rispetto ai costi affinché un venditore possa investire granché nel prendere nuovi clienti attraverso azioni di marketing attivo.
    Questi costi di acquisizione dei clienti però vengono meno se, anziché andare il fornitore dal cliente, è quest’ultimo che fa tutto da solo. Cioè si informa sulle offerte disponibili, sulle proprie modalità di consumo, e va a stipulare sul web il contratto che vuole dal fornitore che vuole.
    In questo modo il risparmio commerciale per il fornitore diventa risparmio suo, del cliente. Non solo: mancando la mediazione al telefono o di persona di un agente, è meno probabile fare errori, visto che sul web è il cliente stesso che mette i dati e clicca dove vuole cliccare.

    Eppure, sono pochissimi a farlo.

    lunedì 11 maggio 2015

    Auto elettrica Milano-Bruxelles - D240-241

    Il produttore americano di auto elettriche Tesla ha annunciato pochi giorni fa il lancio di una batteria (nel senso di accumulatore elettrico) domestica.
    Una specie di armadio per immagazzinare energia autoprodotta e consumare solo quella, magari staccandosi dalla rete elettrica. Ne parleremo senz’altro, anche perché ci sono lettori (o ascoltatori su Radio Radicale) come Ivana Di Carlo che mi scrivono in questo senso.

    Ma nel frattempo come se la cavano le batterie installate nelle auto elettriche oggi disponibili? Per esempio: si riuscirebbe ad andare da Milano a Bruxelles senza problemi di ricarica, dribblando la distanza e la disomogeneità tra le colonnine disponibili in giro per quel pezzo d’Europa?

    Beh, nell’ambito del progetto cofinanziato dall’Unione Europea Green eMotion (sì, purtroppo è un gioco di parole) qualcuno ci ha provato. E ce lo facciamo raccontare direttamente da uno dei guidatori di questa maratona elettrica, Filippo Colzi, ingegnere del RSE (istituto pubblico di ricerca del settore energetico, parte del gruppo GSE) con esperienza internazionale di progettazione di impianti da fonti rinnovabili.



    E com'è andata?



    Il paesino svizzero virtuoso era Schinznach Bad, mi ha spiegato poi Colzi a microfoni spenti, sull’autostrada 3 tra Zurigo e Basilea.

    Questa storia mi richiama quella di un mio amico, nel suo caso non altrettanto virtuosa, che per non perdere i punti fedeltà di una catena di distributori di benzina pianificava i percorsi di conseguenza, e rischiava di rimanere a secco pur di non far rifornimento senza punti. Poi un giorno è davvero rimasto fermo in autostrada e ha distrutto la tessera-punti masticandola accuratamente.

    Sentiamo le impressioni di guida di Colzi:



    So però che alcune versioni della BMW i3 usata in questo test hanno un cosiddetto “range extender”, cioè un piccolo motore a benzina che funziona da generatore per ricaricare le batterie in caso di necessità. Questo da un lato emancipa dal rischio di rimanere a piedi non trovando una colonnina di ricarica disponibile, dall’altro fa venir meno la soddisfazione di guidare un veicolo a zero emissioni da combustione. Immaginate che smacco dover far partire un generatore nel bagagliaio simile a quegli orrendi accrocchi che affiancano le bancarelle per turisti…

    Vuoi vedere che i nostri amici dell’RSE l’hanno fatto?


    Bene! Questo è ciò che speravo di sentire da Colzi. Che poi mi ha mandato alcuni numeri che ci danno l’idea di come quest’impresa non sia stata una passeggiata. Sentite: Colzi e Ardigò, hanno percorso 1100 chilometri a una velocità media durante la guida di 70 all’ora (piuttosto elevata, e infatti si tratta credo di un percorso in gran parte autostradale). Hanno dovuto ricaricare 10 volte, hanno guidato 19 ore. E sapete quanto hanno dovuto tenere l’auto in ricarica? 42 ore. Quest’ultimo dato ci dice quanto il settore dell’auto abbia bisogno di nuove tecnologie di stoccaggio dell’elettricità.

    Grazie per queste puntate all’RSE.

    Qui una presentazione del viaggio caricata su youtube da Gianemilio Ardigò di RSE, uno dei piloti della vettura:

    https://www.youtube.com/watch?v=usdXSi6Nvfk&feature=youtu.be

    domenica 26 aprile 2015

    DEF e riforma fiscale ecologica - D238

    La Commissione Ambiente della Camera ha espresso il 21 aprile 2015 parere favorevole al DEF, soggetto a condizioni tra cui l’adozione delle misure di fiscalità ambientale previste nella Legge Delega fiscale (legge 23 del 2014, art. 15) che a Derrick abbiamo ampiamente trattato, a partire da questa puntata del 2013.

    La delega, nell’indicare la riforma ecologica del fisco, usa parole a tratti un po’ generiche e confuse in accozzaglie di giustapposizioni che sembrano più un tentativo di mettere d’accordo tutti che di scrivere direttive applicabili, come capita spesso alle nostre leggi. Tuttavia ci sono anche richiami specifici come quello a una carbon tax, che in passato in Italia c’era ma che è stata tolta anni fa come abbiamo raccontato in precedenza.

    Raccontammo anche che la riforma prevista nella Delega ha un tallone d’achille esiziale: si richiama a una direttiva europea in lavorazione che però l’attuale Commissione Europea Junkcer ha congelato. Per questo ora il parere della commissione ambiente al Governo è importante: perché esprime la necessità di procere indipendentemente dalla direttiva UE sulla tassazione dei prodotti energetici.

    La stessa commissione della Camera, però, ha respinto la risoluzione del M5S che chiedeva anche l’eliminazione dalle bollette dell’energia dei sussidi alle fonti fossili e ai grandi consumatori. Un’estensione invece opportuna quella tentata dai Cinquestelle, visto che la portata della parafiscalità in bolletta è crescente e che tipicamente aggira la discussione politica sul fisco. Infatti con le bollette si fanno perequazioni, politica industriale, si elargiscono sussidi proprio come con le tasse.

    E poi com’è andata al DEF nella plenaria parlamentare? Entrambi i rami l’hanno approvato con una risoluzione che stando ai commenti che leggo prevede di procedere alle riforme fiscali previste nella delega. Inclusa quindi la revisione ecologica. Peccato che io non sia riuscito a trovare per ora nei siti istituzionali il testo della risoluzione.

    Insomma il Parlamento ha ribadito al Governo la richiesta di cambiare il fisco per renderlo più coerente agli obiettivi di politica ambientale peraltro già condivisi. Il Governo per ora non ha fatto nulla, ma l’annuncio del Green Act fa ben sperare. Nel frattempo, significativamente, sono 43 grandi aziende europee, compresa l’Enel che tra le sue attività ne ha anche ad alta intensità di emissioni-serra, a chiedere ai legislatori politiche più coerenti per la decarbonizzazione, anche attraverso l’esplicitazione dei costi ambientali delle emissioni. Leggasi: carbon tax.

    Perché lo fanno queste aziende? Lo spiega efficacemente Giovanni Battista Zorzoli su Staffetta Quotidiana: perché fare fughe in avanti aziendali verso la sostenibilità – per quanto encomiabili - è meno razionale e più oneroso che avere regole valide erga omnes. In altri termini: il legislatore e i Governi non possono sancire l’obiettivo di decarbonizzare l’economia e poi fornire segnali contraddittori, come i sussidi alle attività che danno un contributo negativo a quello stesso obiettivo.

    Altrimenti le imprese virtuose rischiano d’esser fatte fesse.

    La lettera dei 43 AD sulle politiche ecologiche (dal sito di QualEnergia, in inglese) è qui: http://www.qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/Open%20letter.pdf

    L’articolo di G.B. Zorzoli su Staffetta Quotidiana (a pagamento), qui:

    martedì 21 aprile 2015

    La guerra dei sussidi (ennesima) - D237

    Oggi ci aggiorniamo su una delle storie senza fine che Derrick ha sempre seguito: la guerra dei sussidi alimentati dalle bollette dell’energia. Tempo fa avevo dato notizia delle proteste di aziende non manifatturiere contro una norma di legge che attribuisce alle aziende energivore del solo manifatturiero il diritto di avere sconti sull’energia a spese di tutte le altre bollette.

    Gli aggiornamenti partono da fine 2014 quando il TAR di Milano ha rigettato il ricorso di un gruppo di aziende della grande distribuzione contro le norme dell’Autorità per l’Energia attuative di questa discriminazione. Il TAR scrive che la logica sottesa, presente anche nelle norme europee, è difendibile, perché identifica correttamente nel manifatturiero l’ambito dei settori sottoposti a concorrenza internazionale. E quindi alla perdita di competitività dovuta al fatto che in altri Paesi le bollette non subiscono gli aggravi dovuti alle politiche ambientali europee che pesano invece sulle bollette interne. Inoltre, sentenzia il TAR, non si capisce in che modo la grande distribuzione italiana, che opera in un mercato invece locale, dovrebbe essere danneggiata dalla mancata partecipazione al sussidio per energivori.

    Stanno in piedi queste argomentazioni del TAR? Poco. È vero che l’Europa ha introdotto il principio dei sussidi energetici per chi compete internazionalmente, ma è anche vero che farne coincidere il novero col manifatturiero è una semplificazione grossolana. E poi sì che c’è distorsione della concorrenza discriminando i sussidi tra settori: anche quella è concorrenza.

    Un articolo di Gionata Picchio direttore di Staffetta Quotidiana del 16 aprile 2015 dà conto di una decisione in senso diverso di un altro tribunale amministrativo: la VI sezione del Consiglio di Stato. Tutto nasce da un ricorso, simile a quello della grande distribuzione, da parte di Fondazione Santa Lucia, nel settore della sanità.

    Il consiglio di Stato in questo caso ha deciso di chiedere aiuto, per la propria decisione, alla Corte di Giustizia europea, riguardo a due punti:

    1)      Se la direttiva europea sulla tassazione dell’energia – che permette gli sgravi agli energivori - riguardi anche gli oneri parafiscali delle bollette, su cui si applicano gli sconti di cui stiamo parlando;

    2)      se gli Stati membri abbiano diritto di applicare questi sussidi in modo selettivo per singoli gruppi d’aziende.

    Sono aspetti molto interessanti, nell’ambito della politica industriale in bolletta. Speriamo la corte risponda presto.

    mercoledì 1 aprile 2015

    Intervista per Nuova Energia 2/2015

    Intervista a Michele Governatori apparsa su Nuova Energia 2/2015

    Tempo fa in Italia, nell’energia si parlava di colli di bottiglia che ne frenavano una vera liberalizzazione. A che punto stiamo?
    Se parliamo di colli di bottiglia fisici, e in particolare di vincoli alle interconnessioni con l’estero di gas ed elettricità, direi che la situazione per quanto riguarda l’Italia continua a migliorare non solo per il trend di aumento, anche in prospettiva, della capacità fisica, ma anche perché i prezzi italiani all’ingrosso, oggi più vicini a quelli europei, hanno reso più bassa la perdita di benessere economico dovuta ai vincoli residui. Inoltre, nell’elettricità il market coupling partito quest’anno permette uso più efficiente della capacità disponibile.
    Le cose vanno meno bene internamente, dove è sempre complicato fare nuove linee elettriche e dorsali gas. Se guardiamo alla nuova interconnessione elettrica Calabria-Sicilia, ancora bloccata, è triste dover constatare che i prezzi dell’isola e del continente si sono sì avvicinati molto rispetto al passato (e questo è un bene per i consumatori), ma attraverso un intervento dirigistico che ha reso sostanzialmente amministrata la remunerazione delle centrali siciliane.
    E poi ci sono i colli di bottiglia nel disegno di mercato, ancora più gravi, ma ne parliamo dopo.

    È davvero iniziata una ripresa dei consumi energetici nel nostro Paese? E questo significa che possiamo stare tutti più tranquilli, oppure...
    I dati recentissimi di ripresa nell’elettrico sembrano mostrare aumenti di consumi simili a quelli del PIL. Quindi probabilmente siamo di fronte a un effetto fisiologico di ripresa indotta da quella dell’economia. Quest’ultima però è una ripresa debole, soprattutto se confrontata con l’eccezionalità delle misure di politica monetaria per stimolarla (il QE) e del contesto favorevole (petrolio a buon mercato, Euro deprezzato).
    Dubito poi che vedremo un aumento dell’intensità energetica del sistema (cioè del rapporto tra consumi di energia e PIL), credo anzi che gli effetti permanenti della crisi, che corrisponde a un’evoluzione dolorosa ma per certi versi anche sana dell’economia, stabilizzeranno al ribasso l’intensità energetica a causa della selezione di aziende a maggior valore aggiunto e quindi con minore incidenza degli acquisti energetici in rapporto al valore della produzione. A questo si aggiungono gli effetti delle politiche di efficienza che credo soprattutto nei consumi domestici e del terziario stiano dando risultati strutturali. Io stesso consumo in modo molto diverso rispetto a quando avevo lampade a incandescenza, una caldaia senza condensazione dei fumi e finestre a maggiore trasmittanza, e non tornerò indietro.
    C’è, per l’altro verso, una prospettiva rilevante di concorrenza tra fonti di energia, che potrebbe avvantaggiare l’elettrico (soprattutto grazie a pompe di calore e auto elettriche) a meno che non prendano piede tecnologie di microgenerazione diffusa a gas.
    Per finire la risposta: un’azienda di mercato credo non possa stare mai tranquilla. O “imbrocca” la sua visione del futuro e vi trova uno spazio coerente, o non guadagnerà.

    L’Europa dell’energia non sembra procedere a passo spedito…
    Siamo abituati a sentirci dire che il mercato unico non è completo e che tanti Paesi sono in ritardo nell’applicazione delle direttive mercato. Che è per molti versi vero. Ma è anche vero che l’UE, pur in una fase di debolezza della Commissione rispetto ai Governi e che spero si superi con la gestione Juncker, è ancora il motore principale delle istanze pro mercato. Basta vedere la procedura d’infrazione in corso nei confronti dell’Italia riguardo all’applicazione del terzo round di direttive mercato, che tocca aspetti decisivi come l’unbundling tra gestione delle reti e vendita di energia anche a livello locale e l’autonomia dell’Autorità di settore.
    E ancora: il coupling dei mercati del giorno prima ormai compiuto in gran parte dell’Europa occidentale (e non solo) è un risultato importante di integrazione. Certo ci sono incognite riguardo all’integrazione dei mercati del bilanciamento e di quelli – nascenti – della capacità, e c’è stata la resa molto grave proprio di Juncker riguardo all’armonizzazione della fiscalità energetica.
    Ma nel complesso ho l’impressione che sia ancora l’UE a dare il “la” ai mercati liberalizzati.

    Il crollo del prezzo del barile sta mettendo in difficoltà il settore shale. Che cosa sta cambiando?
    Credo stia avvenendo, in modo particolarmente repentino, una cosa fisiologica nel settore oil&gas: l’alternanza di momenti in cui il prezzo della commodity giustifica investimenti massicci con altri in cui accade il contrario. A questo si aggiunge il cambio del trend della domanda dovuto credo in parte a cambi tecnologici nell’uso dell’energia e, soprattutto, al rallentamento della crescita globale, dovuta all’andamento dei Paesi che ci avevano abituati a uno sviluppo più rapido. È un sistema che si autoregola ma che richiede spalle larghe da parte degli investitori. Le risorse minerarie sono destinate a diventare scarse e scarsissime nel lungo periodo, ma questo ha poco a che fare con la loro scarsità di breve che dipende dalla capacità produttiva installata in un determinato momento (una cosa che incredibilmente i fan della teoria del picco del petrolio non afferrano). Mi aspetto che la produzione di shale per qualche tempo resterà alta, perché il boom di investimenti (eccessivo secondo i critici che parlano di “bolla shale”) ha portato a una capacità estrattiva che conviene far funzionare finché i prezzi della commodity sono superiori ai soli costi operativi di estrazione. Per questo ci potrebbe volere del tempo prima che i prezzi oil&gas inizino a fornire di nuovo un segnale di scarsità.

    Torniamo nel nostro Paese. Il settore dell'energia, almeno in Italia, sembra essere piuttosto conflittuale. Qualsiasi provvedimento, delibera, decisione, venga annunciato... c'è sempre qualcuno che si sente danneggiato. Ma è davvero così difficile mettere d'accordo le varie componenti?
    Non credo che la conflittualità sia necessariamente un problema. Che ci siano interessi contrastanti è normale, il punto discriminante piuttosto è con quanta efficacia e trasparenza un sistema riesce a contemperarli. La definizione diritti acquisiti l’ho sempre trovata poco utile, e qualche volta viene usata a sproposito intendendo la più vasta categoria delle aspettative acquisite. Tecnicamente un contratto o una convenzione a tempo determinato sono sì diritti acquisiti, ma non lo è per esempio l’aver confidato nell’immutabilità delle norme. Uno che investe deve avere un’idea del futuro, e se questa gli potesse essere garantita non chiameremmo “di rischio” il capitale che lui ci mette: gli investimenti possono andare male.
    Se mi consenti di allargarmi un po’ nella risposta, io credo che in Italia noi abbiamo un concetto di politica industriale fatta di stampelle alle aziende in crisi anziché di idee strategiche di futuro e aiuto alle imprese che devono nascere per realizzare quel futuro. Einaudi diceva che un’economia di mercato ha bisogno della sanzione (il fallimento) per le imprese “male gerite”. Io aggiungerei anche per quelle che hanno sbagliato le scommesse. Solo così le loro risorse (persone, capitali) possono liberarsi e rientrare nel circolo dell’economia.
    Tornando all’energia: il legislatore e l’Autorità hanno il dovere di cambiare le regole quando ritengono sia necessario, condividendo quando è possibile in anticipo le direttrici strategiche con cui lo fanno. Condivisione che l’Autorità dell’energia fa nei documenti di consultazione, ma con un piglio che trovo troppo burocratico, e che il Governo ha fatto con un documento importante ma poi apparentemente snobbato e quasi abbandonato: la strategia energetica nazionale. Infine: probabilmente non ha molto senso che norme di settore vengano sfidate da tribunali amministrativi e con esiti che derivano da ragioni spesso formali. Un altro sistema, una sorta di arbitrato istituzionale di settore, magari sarebbe meglio, ma come?

    Oggi sembra che tutto ciò che ruota attorno al mondo dell'energia debba essere preceduto dal prefisso smart, altrimenti è da buttare. Ha davvero senso parlare di smart energy?
    È vero! Non se ne può più. Se io avessi il coraggio di fare l’imprenditore in questo settore (uno dei sogni irrealizzati della mia vita, come quello di diventare un bravo jazzista) sceglierei una ragione sociale, tanto per distinguermi, del tipo Energia Gonza. Scherzi a parte: se una cosa è davvero intelligente non dovrebbe servire autodichiararla tale perché ce ne si accorga.
    Poi, lo scrive anche l’Autorità in una sua recente consultazione: se li dobbiamo pagare in tariffa, bisogna valutare analiticamente dove stanno i vantaggi dei progetti “smart”. Se sono progetti di mercato, invece, dovrebbe valere quella sana selezione naturale di cui dicevo prima.
    Una cosa che si sente di continuo preconizzare è l’opportunità di stoccare energia di fonte rinnovabile verde per superare i vincoli di dispacciamento. Magari facendone idrogeno, o addirittura nei casi più fantasiosi molecole di sintesi in grado poi di ri-liberare energia. Peccato che a volte si consideri l’obiettivo di produrre tutto il producibile come un postulato indipendente dai costi. Ricordo l’analisi costi-benefici che fece Terna anni fa per giustificare l’investimento in batterie sulla rete di trasmissione elettrica: partiva dal presupposto che si dovesse azzerare subito l’energia verde non dispacciata (che oltretutto era già poca). Una dichiarazione di missione costi quel che costi, più che un’analisi costi-benefici. Per fortuna l’Autorità poi si è attivata per correggere almeno in parte l’impostazione.

    Questo è anche l'anno dell'EXPO. Qualcuno ha detto che il tema energia – salvo soprese – è stato considerato solo di sponda e senza lo spazio che avrebbe meritato. Dunque, un'occasione persa? Cosa ne pensi?
    Io credo che il tema cibo sia un bel tema, non concordo con i detrattori che lo vedono come un settore troppo tradizionale o “arretrato”. Ho l’impressione che stiamo assistendo a un cambio economico-culturale, per cui gli strumenti di frontiera oggi percepiti come più utili ad aumentare il nostro benessere siano da un lato più immateriali, e dall’altro più legati alla salute e alla sostenibilità in generale, e il cibo di qualità richiama questo concetto. Anche l’energia è influenzata da questo trend e il “consumare meglio”, almeno in alcune fasce di clienti, sta diventando un’esigenza sempre più percepita. È una moda? In parte forse sì, ma non per questo è meno rilevante. Una moda è pur sempre il segno di un desiderio da soddisfare e per cui si è disposti a pagare. Io, per esempio, pagherei per un sistema di domotica energetica, e pagherei probabilmente più soldi rispetto ai risparmi che mi comporterebbe. Sono sciocco? Può darsi, embè? Sono un consumatore libero: il portafogli è mio e me lo gestisco io…

    Lo scorso 13 aprile si è svolto a Milano il convegno annuale di AIGET. Quali sono gli spunti più interessanti che sono emersi? C'è stata qualche proposta, qualche idea o qualche intervento che ti hanno colpito in particolare?
    In Aiget stiamo facendo uno sforzo pazzesco per portare avanti le istanze del mercato, in un contesto di arroccamento (comprensibile ma dannoso al sistema) degli operatori con business regolati e di quelli con posizioni di dominanza. Noi crediamo che se vogliamo tenere basse le bollette e alta la qualità del servizio al cliente l’unica risposta che funziona è la concorrenza efficace. Al convegno, che è corrisposto al lancio del position paper 2015 disponibile sul sito dell’Aiget, abbiamo posto l’accento soprattutto sulla necessità di far funzionare i mercati organizzati a pronti e a termine del gas e di realizzare un unbundling efficace tra distribuzione e vendita di elettricità e gas. Quest’ultima è una condizione indispensabile a garantire una concorrenza equa tra tutti i venditori, e deve passare attraverso una terziarizzazione delle informazioni utili all’acquisizione dei clienti (tramite il Sistema Informativo Integrato di Acquirente Unico) e attraverso un network code che regoli in modo corretto il livello di servizio dei distributori in modo che ne aumenti la qualità e soprattutto che sia omogenea rispetto a tutti i venditori e senza vantaggi impropri per gl’integrati. Oggi, paradossalmente, per alcuni versi i venditori, che fanno un business libero, sono più regolati dei gestori di rete che fanno un business regolato. Per esempio: le bollette di un venditore ad alcune categorie di clienti sono dettate dalle norme, mentre non lo sono i sistemi informatici con cui i distributori forniscono i dati di consumo.
    Tra le cose più interessanti uscite nel convegno mi sembra ci siano la convergenza tra i presidenti dell’Autorità Energia e di quella Antitrust riguardo alla necessità dell’unbundling funzionale e di brand a livello retail, e le rassicurazioni da parte di GME e Snam Rete Gas riguardo allo stato di avanzamento del nuovo mercato del bilanciamento gas.

    Il tema dell'incontro è stato: “clienti, concorrenza e regole”. Prova a dare un voto ai primi, come ai tempi della scuola. Li promuoveresti?
    Ai clienti di sicuro do 10, perché senza di loro non ha senso nulla del nostro lavoro in questa e altre filiere. Però, lo ammetto, è un voto con una componente di adulazione. Magari direi anche loro, benevolmente, che devono accettare un po’ di impegno in più nella difesa attiva, e non passiva e troppo delegata, dei propri interessi. Nello stesso tempo noi fornitori dobbiamo imparare a non abusare della loro disponibilità e dobbiamo cooperare perché ci siano regole del gioco che rendano i più difficili possibile i comportamenti commerciali scorretti.
    Senti questa: qualche settimana fa a colle Oppio a Roma ero a una festa in una bella casa tra intellettuali del mondo della scrittura narrativa (un mondo in cui ho avuto la fortuna di affacciarmi in una fase precedente della mia vita) e mi trovavo in un poggiolo dove alcuni si erano assiepati per fumare. Lì chiacchieravo tra gli altri con lo scrittore modenese Ugo Cornia (Sellerio, Feltrinelli) che si ricordava vagamente di me come narratore di scarso successo e mi chiedeva come mi pagassi oggi da vivere. Quando gliel’ho detto, lui mi ha raccontato subito il fastidio con cui rifugge i venditori di energia e telefonia che lo ammorbano di continuo per fargli cambiare contratto. La sua reazione mi ha colpito e fatto riflettere: ai clienti dobbiamo chiedere sì più attenzione e consapevolezza, ma nemmeno possiamo pensare di bombardarli, men che meno se con scarsa qualità informativa.

    La soluzione non saranno mica le tariffe di tutela?
    Giammai! Quelle ritardano la maturazione del mercato, perché producono sussidi incrociati e deresponsabilizzano i clienti. È il mercato stesso – con le regole giuste certo – che può fornire forme di intermediazione tali da rendere comunque semplice l’accesso a un prodotto/servizio complesso da parte di clienti senza ricorrere a nessuna forma di tariffa amministrata (quand’anche basata su indicatori di mercato). Pensiamo ai mutui o alle assicurazioni. È facile sceglierli? No, sono prodotti relativamente complessi la cui valutazione richiede informazioni riguardo alle quali il cliente patisce uno svantaggio rispetto a fornitore. Però esistono servizi di confronto nati spontaneamente proprio per colmare la necessità informativa e di semplificazione. Simili strumenti, uniti all’eventuale aggregazione non forzosa dei clienti e a obblighi informativi efficaci da parte dei fornitori, anche basati su benchmark o indicatori obbligatori, possono essere la risposta per rendere facile e sicura la scelta di un prodotto complesso come quello dell’energia.
    Certo, il mercato sottostante deve essere competitivo, altrimenti il cliente non risparmia. Stando al decreto Competitività, abbiamo quasi tre anni per sistemare le cose che non vanno, e fare in modo che i clienti dell’energia, tutti sul mercato libero, guadagnino ulteriormente dal mercato.

    Una domanda di carattere più aziendale, legata al tuo ruolo di direttore affari istituzionali e regolatori in Axpo Italia. La vostra è una delle poche realtà straniere che sembra non essersi pentita della scelta di investire sul mercato italiano. Quale il segreto?
    Le multinazionali sono entità complesse e non certo costituite da una sola anima tra Paese e Paese. Hanno all’interno culture diverse e il loro successo dipende anche dalla capacità di farle dialogare, cosa in cui la mia casa madre credo abbia in generale fatto bene grazie a un atteggiamento poco “coloniale” come in altri casi invece capita, e anzi puntando sull’autonomia dei manager dei vari Paesi e mercati. E anche in Italia i risultati in termini di redditività sono arrivati, anche se poi messi a dura prova dalle perdite sulla generazione elettrica. Io credo che il segreto, che naturalmente non è tale, è assumere e far crescere gente bravissima. Punto. Nessun investimento paga quanto essere selettivi nella scelta dei collaboratori (e di conseguenza dei capi, se il sistema di carriere interne è agile come è stato in Axpo Italia dove l’attuale direttore generale mercato è arrivato a questa posizione dall’interno grazie alle sue capacità). Io stesso, nel mio piccolo team, se ho ottenuto dei risultati di cui essere contento è perché ho avuto con me persone piene di qualità, e quando ho a che fare con i colleghi del business (quasi tutti a Genova nel caso di Axpo Italia), di norma giovanissimi e con CV di studi di eccellente livello, capisco perché siamo una bella azienda. Quindi per me la prima capacità che serve a un manager è promuovere la meritocrazia tra i suoi collaboratori, assumendosene la responsabilità. Non è affatto una cosa facile e scontata: bisogna scontrarsi con una mentalità diffusa del “vogliamoci bene” che inevitabilmente diventa anche protezione della mediocrità.
    Il che si lega, in riferimento alla discussione politica, a quello che per me è un fraintendimento della nostra stessa Costituzione: diritto al lavoro non può voler dire diritto al posto di lavoro indipendentemente dalle proprie capacità. Certo che dobbiamo realizzare la solidarietà a livello sociale e aiutare chi non ce la fa, ma per progredire come economia e avere un futuro di benessere non possiamo fare sconti alla concorrenza tra professionisti, così come tra aziende.