lunedì 12 giugno 2017

USA: accordo di Parigi e futuro del carbone (Puntate 316 e 318)

Come ricordano Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su Lavoce.info (link sotto), l’accordo di Parigi di fine 2015, già ratificato da 147 paesi sui 197 rappresentati nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC) firmata a Rio de Janeiro nel 1992, è uno degli strumenti che traducono in azione l’obiettivo della Convenzione, cioè stabilizzare in tempo utile le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello sufficiente a escludere effetti pericolosi delle attività̀ umane sul sistema climatico.

Notano sempre Galeotti e Lanza come Trump abbia scelto di recedere dall’ultimo patto operativo (l’accordo di Parigi) ma non dalla Convenzione quadro. Come mai? Forse perché uscire da una convenzione ratificata da un presidente repubblicano (Bush) e dal senato sarebbe stato difficile, o forse per accontentare il proprio elettorato senza in realtà avere effetti immediati, visto che l’uscita dall’accordo di Parigi, per come disciplinata dallo stesso accordo, richiede una procedura abbastanza lunga da prolungarsi fin verso la fine del mandato di Trump. Il quale, almeno per ora, non ha messo gli USA in un territorio di formale illegalità rispetto ai termini dei patti contratti, come io qui a Derrick invece prefiguravo sulla base delle dichiarazioni americane in seno al G7 energia qualche tempo fa.
Una sala per banchetti abbandonata, fotografata da Derrick

In che modo possiamo osservare se le economie mondiali si stanno o non stanno preparando a un futuro a basse emissioni-serra? Guardando gli investimenti e le scelte delle aziende, che sono solo in parte determinate da politiche vincolanti degli Stati, visto che chi prende decisioni economiche di lungo termine deve farsi un’idea di come sarà il futuro anche anticipando le decisioni politiche. E abbiamo visto a Derrick che sono state anche le aziende, perfino del settore petrolifero come Exxon, a chiedere ai politici segnali più coerenti verso la decarbonizzazione.
Negli USA del resto si sta massicciamente investendo in infrastrutture per l’esportazione di gas naturale allo stato liquido e forse non è molto credibile che il loro presidente danneggi il settore del gas (veicolo nel medio termine di una filiera energetica meno carboniosa) a vantaggio dell’industria del carbone.
Carbone per il quale la domanda mondiale è calata per due anni di seguito secondo l'outlook di BP, iniziando un trend che, per usare le parole di Sissi Bellomo del Sole 24 Ore, è difficilmente invertibile.

Non serve quindi una politica internazionale di indirizzo nel contenimento delle emissioni serra? Certo che serve. Secondo Christian de Perthuis, che ne ha scritto su Les Echos del 7 giugno 2017 (ringrazio la preziosa rassegna stampa di Aiget) la politica di decarbonizzazione dev’essere rafforzata puntando sui sistemi di disincentivo economico alle emissioni. E il principale di questi sistemi, l’europeo Emission Trading Scheme, necessita secondo De Perthuis di essere rivitalizzato, come in effetti prevede la proposta della Commissione UE contenuta nel cosiddetto “quarto pacchetto” clima-energia, che nei prossimi mesi passerà al vaglio del Consiglio e del Parlamento UE.
Ne potrebbero essere perfino gli stati americani più sensibili in materia, come la California, scrive De Perthuis, i futuri membri o emulatori.


La crisi del carbone statunitense

Scrivevano Jon Camp e Kris Maher il 20 giugno 2017 sul Wall Street Journal che negli Stati Uniti in 5 anni sono state chiuse 350 centrali elettriche a carbone, sostituite perlopiù da altre a gas, la fonte ormai più diffusa negli Stati Uniti e che ha scalzato il primato che era proprio del carbone come fonte di 1/3 dell’elettricità totale prodotta.
Ne derivano e deriveranno problemi occupazionali non solo alle miniere degli Appalachi, ma alle comunità di vari Stati dell’Est e centro Est come Ohio, Pennsylvania, New Jersey, Tennessee, Michigan.
Come abbiamo visto sopra e in altre puntate (link sotto), la causa di questo è l’accresciuta competitività del gas naturale americano, resa possibile dagli enormi investimenti in nuove tecnologie di estrazione. Ma anche da limitazioni di emissioni inquinanti pericolose (regole indipendenti da quelle sui gas-serra) e dalla migliore flessibilità delle centrali a gas per compensare l’intermittenza delle rinnovabili.

Foto trovata da Giovanna Milner
Ci sono organizzazioni che negli USA chiedono alla politica di fermare questa tendenza, per salvare l’occupazione della filiera del carbone (link sotto).
Ed è comprensibile e inevitabile che ci siano, com’è successo altre volte in relazione a tanti settori che venivano scalzati dal progresso tecnologico. Che ne è stato dell’indotto delle macchine a vapore, dei calcolatori a schede perforate, della fotografia chimica? Molte aziende sono fallite, altre si sono riconvertite, di sicuro il tipo di competenze richieste ai loro lavoratori è almeno in parte cambiato.
Per il mondo dell’energia, l’innovazione di informatica e telecomunicazioni, degli apparecchi di generazione e stoccaggio d’elettricità e delle tecniche – di cui a Derrick già anni fa abbiamo parlato – su ricerca e coltivazione di idrocarburi stanno portando e porteranno cambiamenti enormi. Non è credibile fermarli per garantire continuità agli occupati del carbone.


Reddito minimo e innovazione?

Questo episodio, come tanti altri, secondo me mostra come un paracadute al reddito di chi perde il posto sia importante per aiutare l’innovazione.
Se un’innovazione rischia di buttarmi sul lastrico perché dovrei appoggiarla?
Posso farlo solo se il sistema di welfare mi riduce i danni e aiuta a riconvertirmi.
Se questo è vero, è uno degli argomenti per sostenere che un reddito minimo garantito ben disegnato aiuta ad accelerare l’innovazione e, quindi, a rendere la comunità nel complesso più competitiva e ricca.



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